Se le giornate d’inizio autunno sono fresche e luminose e le notti fredde ma non gelide, il livello di antocianine nel fogliame sale e, se il pH è a un certo livello, le foglie non diventano gialle ma virano sul rosso fuoco, il colore delle foreste d’acero canadesi tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre. Prima di lasciare il posto al giallo e al grigio cenere l’autunno può essere più lussureggiante della primavera e apparire il migliore dei tempi possibili. Molto più confortevole, splendente e sontuoso degli stentati germogli che alla fine dell’inverno si fanno faticosamente strada tra le pietre gelate e la terra esausta.
Di germogli verdi si discuteva nel febbraio 2009, quando qua e là, con eroico ottimismo, pareva a qualcuno di scorgere un rallentamento della caduta. Di foglie gialle si comincia a discutere oggi da parte di alcuni, quando alla maggioranza pare invece di vivere una stagione di forza e di accelerazione della crescita.
Uno dei più brillanti strategist azionari, François Trahan di Cornerstone, sostiene che siamo quasi alla fine della prima delle tre fasi della parabola discendente che porta al bear market. In questa prima fase l’inflazione inizia per prima a scendere dal suo massimo di ciclo seguita, dopo 2-4 mesi, dagli indici di diffusione sulla produzione come l’ISM. A questo punto la derivata seconda degli utili stimati inizia a scendere. Gli utili cioè salgono ancora, ma iniziano a perdere velocità. I segnali di mercato si deteriorano senza dare troppo nell’occhio. Gli spread di credito smettono di restringersi e iniziano ad allargarsi, un numero crescente di azioni si sposta al di sotto della media mobile a 200 giorni, mentre i settori difensivi prendono il posto dei titoli di crescita come leader del mercato.
La seconda fase, che starebbe per aprirsi, vede il dibattito spostarsi sulla possibilità di un soft landing, che gli ottimisti vedono come una condizione benigna di costante crescita moderata che può durare molto a lungo e che i pessimisti vedono invece come preludio alla recessione vera e propria della terza fase. Quanto c’è di vero in questa narrazione? Se ci concentriamo sull’America i segnali d’allarme non
mancano e a quelli già citati si possono aggiungere il raffreddamento della domanda di auto e la stabilizzazione di quella di case (auto e case sono i fattori che più influenzano i cicli economici).
Si nota anche un fatto che comincia ad apparire strutturale, la crescente frugalità del consumatore americano. Meno benzina, meno viaggi, meno ristoranti, meno debiti e, al contrario, più tempo passato in casa con molta più televisione e perfino, quasi incredibile a udirsi, una ripresa nella lettura dei quotidiani cartacei. Vorremmo però temperare e, soprattutto, contestualizzare queste considerazioni. L’ISM scende dopo essere stato gonfiato nella prima metà di quest’anno dalle attese su Trump. Abbiamo passato molti mesi in cui gli indicatori di sentiment e di diffusione erano molto migliori dei dati reali e di quelli complessivi. Ora il gap si sta riducendo, ma questo non avviene necessariamente per un deterioramento di quelli reali.
Quanto alle auto, la sensazione è che la domanda in America abbia finito di scendere e possa anzi risalire nei prossimi mesi, anche per effetto delle distruzioni operate dall’uragano Harvey. Le case, dal canto loro, sono al momento in fase di stabilizzazione ed è presto per
parlare di inversione di tendenza. In Europa stiamo certamente assistendo al picco della crescita, ma quello che si perderà da qui in avanti (se lo si perderà) sarà effetto di una eventuale rivalutazione ulteriore dell’euro, che non toglierà crescita in assoluto, ma la trasferirà dall’Europa all’America. Non va poi dimenticato che mentre l’America diventa più frugale, l’Europa riscopre il consumismo, torna a viaggiare, ad andare al ristorante e a comprare automobili.
Quello che l’Europa perderà sull’export verrà quindi in buona parte recuperato dai consumi interni. Quanto agli indicatori di mercato, i fattori interni (leadership, ampiezza) si sono senza dubbio deteriorati, ma anche qui, più che di un peggioramento della situazione sottostante, è il caso di parlare di un ritorno a un posizionamento con i piedi per terra dopo i voli pindarici seguiti all’elezione di Trump.
La correzione subita fin qui dal dollaro prolunga la vita del ciclo globale e la stagione delle foglie rosse. Il dollaro più debole tiene in piedi l’America al suo nono anno di crescita ininterrotta e costringe il resto del mondo ad adottare politiche di normalizzazione monetaria ancora più prudenti di quanto si era pensato. Se ne è avuta conferma anche da Draghi, che ha lasciato intravvedere un tapering molto morbido (e ancora più morbido se l’euro dovesse rafforzarsi ancora).
Francamente, da quanto visto fin qui, è difficile trarre conclusioni particolarmente negative. Mancano vistosamente, come ingredienti classici di una recessione imminente, una eventuale improvvisa contrazione nei livelli di credito (questa volta non c’è stata nessuna bolla) e un possibile mutamento drastico della politica monetaria, che il dollaro debole rende ancora più improbabile.
Se rischi ci sono, possono venire da un’altra direzione. Ora che anche Fischer se ne è andato, Trump ha la possibilità di cambiare radicalmente il volto della Fed da qui a febbraio. Esiste, almeno teoricamente, la possibilità che venga sperimentata una strada nuova, aggressivamente pro-crescita. Esiste anche, altrettanto teoricamente, la possibilità che una riforma fiscale espansiva non venga contrastata da una Fed di nuova impostazione. Se Trump decidesse di spingere il dollaro ancora più giù, di scegliere come governatore chi gli prometterà i tassi più bassi e di spingere sul serio (e ottenere) una riforma fiscale, la curva dei tassi tornerebbe più ripida e la borsa americana potrebbe ancora salire.
Sarebbe però una strada piena di incognite, in primo luogo sull’inflazione. Trump è e ama essere imprevedibile. Sa di essere incandescente e a volte si blinda circondandosi di persone con caratteristiche opposte alle sue. A volte le sceglie e a volte dà l’impressione di essere costretto a sceglierle per debolezza politica e per la forza dei suoi avversari. Sulla Fed le pressioni dell’establishment saranno fortissime (deregulation bancaria e politica monetaria ortodossa) ma sull’esito non ci sono certezze.
Concludendo, mentre una previsione per il resto del 2017 non richiede un particolare coraggio (dollaro in temporanea stabilizzazione, recupero delle borse europee e relativa calma di quella americana) per il 2018 i giochi sono più aperti di quanto comunemente non si pensi.