Quando compriamo il pesce, sul bancone del supermercato o lo scegliamo sul menu del ristorante, oppure dal ricco vassoio di cernie, gamberi, gallinelle e scorfani, non siamo consapevoli se quel pesce sia del tutto sano, da dove arrivi, attraverso quali percorsi. Ci piace immaginare che sia stato pescato nel mare che vediamo dalla terrazza, dove siamo comodamente seduti, con la famiglia o gli amici, davanti a una bella bottiglia di Vermentino. Ma quasi mai quel pesce viene da quel mare.
Un servizio di Report (Raitre) di alcune settimane fa, mette in dubbio che il pesce importato o allevato, sia sempre immune da frodi.
In Italia si pescano 180.000 tonnellate di pesce l’anno, secondo l’Istat, ma oltre un milione di tonnellate vengono da paesi stranieri: per il 60% da Grecia, Spagna, Paesi Bassi e altri UE, per il restante 40% da paesi extracomunitari. La cosa più impressionante è che la gran parte di questo pesce non sarebbe fresco! O peggio, nemmeno di buona qualità. Nel senso che magari non ti uccide, ma fa male alla tasca. Compriamo il Pangasio del Mekong invece della Cernia, mangiamo l’Halibut invece della Sogliola, lo Squalo smeriglio invece del Pesce Spada o il filetto di Brosme invece del Baccalà, del Pagro al posto del Dentice Rosa o del Pesce Persico del Lago Vittoria ci viene venduto per filetto di Orata. Pesci che non valgono certamente il prezzo che ci fanno pagare. Valentina Tepedino, medico veterinario di Eurofishmarket precisa che: “Per legge è obbligatorio indicare l’origine del pesce”, ma per origine si intende dove è stato pescato e non la provenienza (per esempio dove è stato lavorato e confezionato). Se un pesce pescato in Atlantico viene poi confezionato in Italia non può diventare pesce italiano” La legge è chiara, ma se lo confeziono “come se fosse” e lascio intendere “che sia un altro pesce” posso arrivare sulla tavola del cliente con un raggiro, che deve essere scoperto dai NAS. Scoprirlo sarà possibile proprio perché il venditore non riuscirà a dimostrare dove ha acquistato le presunte orate e dovrà giustificare che fine hanno fatto i pesci africani.
Accade un po’ come per i molluschi, cozze e vongole (di cui siamo primi produttori in Europa), che vengono vendute etichettate in retine, ma anche ostriche, telline, capesante, cannolicchi, fasolari e canestrelli, devono essere venduti vivi e per questo si acquistano solo in pescherie e mercati e supermercati ittici registrati presso le autorità sanitarie. Il rischio di contrarre batteri come la salmonella ed escherichia coli è alto, così come quello di prendersi una epatite A e norovirus (agente patogeno responsabile della diarrea). Per questo se ne consiglia l’assunzione assolutamente cucinata, sempre dopo un trattamento di depurazione, prima della vendita stessa.
Siamo il paese con il maggior numero di controlli alimentari
Secondo Giuseppe Palma, medico veterinario di Assoittica, noi “siamo il Paese con il maggior numero di controlli alimentari e questo dovrebbe metterci al ripario dai rischi.” Essendo cambiate le abitudini alimentari degli Italiani, oggi diventa quasi obbligatorio importare prodotti semi preparati: eviscerati, sfilettati, conservabili, a fronte di un pesce fresco che va consumato subito altrimenti, emana un cattivo odore, che bisogna saper pulire e saper cucinare. Intanto la flotta dei pescherecci si è ridotta da 18.000 a 12.500 imbarcazioni in 25 anni, anche perché il Mediterraneo è sempre meno pescoso e necessiterebbe di un ripopolamento, visto che il 70% delle specie che vi nuotano sono a rischio estinzione. Se riduciamo noi la pesca, però non è detto lo facciano i nostri vicini, così i tunisini e gli egiziani pescano, e ci vendono, i naselli che noi evitiamo di pescare, per aiutare la sostenibilità del Mediterraneo.
Nel 2017 noi Italiani abbiamo consumato circa 30 Kg di pesce a testa ma nel 2018 il consumo è calato, secondo Ismea, a danno del pesce fresco (-2,7%), del congelato sfuso (-8,7%), del secco, salato e affumicato (-6,3%) e a tutto vantaggio del congelato e surgelato (+2,6%), facilmente reperibile nei Supermercati, perché forse offre più garanzie a chi teme la fregatura. Tra i preferiti i filetti di platessa surgelati, i bastoncini di merluzzo, il salmone, l’orata, il pesce spada. Siamo un paese proteso nel mare con più di 8.000 km di costa ma la gran parte del pesce che consumiamo non viene dalla pesca tradizionale nei nostri mari. E’ completamente passato in cavalleria il discorso della stagionalità, non lo si fa per le verdure, figuriamoci per il pesce! Solo una minima quantità del pesce che consumiamo sarebbe realmente fresco, magari arriva in 12 ore di aereo dal Giappone! Con tanti saluti al Km0 e alle emissioni di CO2. Mentre consumiamo tonno, sardine e acciughe in scatola o in vasetti di vetro e poi tanto salmone conservato che, per dei mediterranei come siamo noi, è una moda davvero ingiustificata! Il consumatore acquista prevalentemente nella grande distribuzione (oltre 80%) ma l’Italia non riesce a coprire il fabbisogno di pesce e allora bisogna trovare altre soluzioni, con le importazioni e gli allevamenti.
Importazioni pericolose?
L’importazione è in costante crescita (+30% in 10 anni) e ha raggiunto 1,35 tonnellate nel 2018, per circa 6 miliardi di euro (fonte Ismea). In particolare Report ha portato alla luce recentemente (16 dicembre scorso) il caso del Pesce Persico, fatto passare per un pesce nostrano o per un’orata sfilettata. Il persico costa poco, per via dei bassi compensi della mano d’opera africana. Viene pescato nel Lago Vittoria, in Tanzania. Uno dei laghi più inquinati al mondo, a causa delle numerose miniere d’oro che i canadesi gestiscono, sulle rive dei fiumi, che poi sversano cianuro e altri residui chimici nelle acque del lago. L’idea che questi filetti di persico siano poi quelli che vengono venduti alle mense scolastiche fa tremare i polsi. Nel servizio televisivo non si chiarisce che per importare pesce in Europa, gli stabilimenti esteri debbono avere il bollo CE, a garanzia del fatto che producono nel rispetto delle norme europee, quindi un pesce importato non dovrebbe essere meno sicuro di uno pescato e lavorato in Europa. Dico “non dovrebbe” perché poi le leggi si possono aggirare. Il Persico africano arriva in Italia e poi potrebbe subire lavorazioni ed essere immesso sul mercato come pesce italiano. Ovvio che così facendo si contravviene una norma e un controllo farebbe scattare sequestro della merce e sonora multa.
Lo stesso salmone norvegese è stato più volte messo sotto inchiesta per i mangimi che sarebbero composti da residui di lavorazioni di carcasse di vacche e di pecore. Il che fa pensare ad un potenziale nuovo caso mucca pazza, perché non è certo un mangime naturale per un salmone quello a base di ovini e bovini! Sicuramente il salmone di allevamento ha comunque un ristretto raggio d’azione, mentre il selvatico fa una vita errabonda e quindi più salutare. Per esempio non ingrasserà tanto rapidamente quanto quello nelle gabbie e la sua carne potrà avere sapori e consistenze diverse a seconda di quando viene pescato. Il problema semmai è perché noi siamo così intransigenti con le aziende italiane ed europee che non rispettano le norme UE e poi così tolleranti con i prodotti importati? Chi ci garantisce che vengano controllate davvero? Nel dubbio, se proprio dovete acquistare salmone, invece di un‘ottima ricciola o cernia, potete provare del salmone selvaggio, meglio se salmone reale o “boccanera”, pescato nei fiumi e nei mari dell’Alaska, della Siberia, in Canada e in Cile.
Allevamenti: sono sicuri o no?
Il 50% del pesce consumato da noi viene dagli allevamenti, non solo di mare e non solo italiani. Ce ne sono in Grecia, Turchia, Spagna, Francia, Portogallo, Croazia e Norvegia. Una buona parte sono allevamenti di trote (pesce di acqua dolce) ma i problemi sono gli stessi del pesce di mare.
Il servizio di Report ha scatenato una forte polemica con gli allevatori. Nel servizio venivano presi di mira soprattutto gli allevamenti intensivi in vasche di cemento a terra (trote) o in gabbie a reti in mare (spigole e orate). A largo di Igoumenitsa (Grecia) si contano ben 27 allevamenti su 20 km di costa! I greci esportano orate e spigole in tutto il mondo (quasi 100.000 tonnellate l’anno) ma adesso aprono allevamenti direttamente nei mari dei paesi importatori, dove possono, per evitare i dazi. I Turchi ne producono 75.000 tonnellate, gli Spagnoli 36.000 tonnellate e gli Italiani solo 16.500 tonnellate e va tutto per il consumo interno. Le vasche di cemento possono contenere anche 30.000 esemplari adulti. Nelle gabbie a mare se ne possono contare oltre 200.000 ma sono sempre pochi per spazi di 7.200 mc, che ne potrebbero contenere anche il doppio. Un allevamento basato comunque sullo spreco, si dice: per produrre un kg di orata sono necessari 2,5Kg di farine di pesce. Lo stesso concetto che viene usato dai vegani per le bistecche di bovino!
Secondo Report, come accade per i polli, negli allevamenti si tende a far crescere il pesce in troppo poco tempo, in 14 mesi anziché i 2 anni e mezzo, necessari affinché raggiunga il peso richiesto dal mercato. In mare l’orata raggiunge i 400-500 gr mangiando pesce e muovendosi molto, per catturare le prede. Nell’allevamento con le gabbie a mare o in vasche a terra, per far crescere rapidamente il peso del pesce, si usano mangimi ricchi di grasso (comunque non oltre il 16%). Ma mentre le vasche sono affollate e il pesce si muove con difficoltà non è così nelle gabbie. Chiaro che se il pesce non si muove non consuma energia e il grasso si accumula nel ventre come accade per le persone.
Il problema dell’affollamento ne comporta altri. Allevare 30.000 orate in una vasca può comportare dei rischi, tipici di ogni allevamento, dai polli ai conigli, quelli delle malattie. Che fare allora? Al primo segno di malattie che possono decimare la popolazione intera della vasca, l’allevatore passa ai mangimi medicati. Dovrebbe farlo per un tempo limitato e invece, secondo Report, lo fanno a tappeto, per stare più tranquilli. I mangimi medicati contengono antibiotici, i quali poi vengono assunti anche dall’uomo e che immunizzano, come sappiamo, chi li assume con continuità, per il fenomeno della antibiotico-resistenza. Gli antibiotici mostrati sono la sulfadiazina, che cura malattie batteriche e nell’uomo si usa contro meningite, febbre reumatica e toxoplasmosi. Poi c’è il trimetoprin, che viene utilizzato per curare infezioni delle vie urinarie e respiratorie (bronchiti), l’otite e le gonorree. In altre parole potrebbe verificarsi che una serie sempre maggiore di infezioni, non siano più trattabili con antibiotici, perché questi diventano sempre meno efficaci, a causa dell’abuso che se n’è fatto nella terapia degli allevamenti animali. Come stanno le cose?
Secondo Valentina Tepedino di Eurofishmarket: “Report ha fatto dell’allarmismo nel servizio televisivo, perché i mangimi usati negli allevamenti devono essere a norma. Per questi mangimi sono stati calcolati ampi margini di sicurezza, i limiti e anche i tempi di sospensione prima della commercializzazione del pescato, in modo che le carni smaltiscano la presenza di antibiotici.”. Stefano Bronchini, responsabile della produzione del Gruppo del Pesce, azienda leader in Italia, con 5 allevamenti tra la Liguria e la Sicilia, quello del Golfo di Follonica in particolare viene citato anche nel servizio di Report, ci ha chiarito che “i mangimi medicati vengono acquistati a norma di legge e somministrarti nei casi previsti solo per il tempo necessario a debellare la malattia, sotto controllo veterinario costante. Noi siamo dichiarati antibiotic free e posso dire che il pesce raramente si ammala, anche perché quando posizioni un impianto fai uno studio sulle acque e sulle correnti e non lo metti se c’è pericolo di inquinamento. Tanto che in cinque anni non ho mai usato il mangime medicato. Facciamo di tutto affinché il pesce stia bene e non ne teniamo troppo nelle gabbie, al massimo 15Kg ogni mc, che è pochissimo, ce ne potrebbe stare anche 40 Kg!”.
Resta un ultimo dubbio, questi antibiotici, comunque, una volta assunti dal pesce che consumiamo, potrebbero comportare un danno anche all’uomo? Valentina Tepedino lo esclude: “Non è significativo il problema che deriva dall’uso di antibiotici per prodotti ittici. Molti paesi hanno adottato misure di riduzione di antimicrobici e alcuni l’hanno quasi azzerata con l’uso dei vaccini (come nel caso del salmone norvegese) ”.
L’importanza della vallicultura
In Italia abbiamo anche una terza via, per sfuggire al dilemma pescato/allevato: la vallicoltura, allevamenti in valli naturali come le lagune. Ad Orbetello per esempio, fin dai tempi dei Romani, la laguna di destra è riservata all’allevamento libero di anguille, orate, ombrine, spigole e anche la bottarga di muggine (Presidio Slow Food), in un invaso di 2.500 ettari, alla foce dell’Albegna e con uno scambio controllato di acqua di mare nella laguna. Ma anche gli stagni sardi di Cabras e la Laguna di Lesina, in Puglia, offrono un prodotto di assoluta qualità, solo che riescono a mala pena a coprire il mercato locale. La differenza con gli allevamenti intensivi è che qui il pesce si deve procurare il cibo da solo, niente mangimi, niente antibiotici. La laguna ospita gamberetti, anellidi, molluschi, larve o altri piccoli pesci che costituiscono la base alimentare delle spigole e delle orate.
Insomma per il pesce succede quello che succede per il resto dell’alimentazione. La grande distribuzione fa leva sulla pigrizia conoscitiva e operativa del cliente, per rifilargli prodotti con i quali ottenere maggiori profitti. Se non si conoscono le basi dell’alimentazione salutare, le caratteristiche del prodotto, in questo caso il pesce, e le leggi italiane ed europee, facilmente si può prendere la fregatura e non può essere sufficiente la tutela dello stato, con i pur efficienti controlli di polizia o la correttezza degli imprenditori. Vogliamo tutto sempre disponibile, sulla tavola di casa. Tutto sano e commestibile, nelle serate di vacanza, al ristorante. Ma la natura ha i suoi ritmi e i suoi tempi e forzarla comporta problemi. Quello della estinzione di specie ittiche, per esempio. Anche a causa dell’inquinamento dei mari, dovuta ai rifiuti di plastica, provocati dalle nostre società.