Mentre i nostri politici stanno cercando la soluzione meno indolore per risolvere la crisi del debito sovrano, vale la pena ricordare quello che avvenne nel 1926. L’Italia era uscita dalla prima guerra mondiale con un enorme debito pubblico che, agli inizi degli anni Venti, oltrepassava il 120 percento del prodotto lordo interno che oggi è oggetto di tanta attenzione da parte dei mercati finanziari. In aggiunta, la composizione del debito pubblico era fortemente squilibrata verso il debito a breve (all’epoca chiamato debito fluttuante e dato dalla somma di anticipazioni della Banca d’Italia allo Stato, biglietti di Stato e BOT).
Nel 1924, lo Stato fascista emise un titolo a 25 anni, al 4,75%, con lo scopo di invogliare i detentori di BOT ad una conversione. L’operazione non ebbe successo. Con una lira debole nei mercati valutari e crescenti timori di un possibile consolidamento del debito (oggi lo chiameremmo ristrutturazione), i BOT a scadenza venivano convertiti in circolante. Il livello del debito e la sua corta durata media avrebbero impedito una stabilizzazione monetaria che Benito Mussolini avrebbe poi annunciato nel suo discorso di Pesaro del 18 agosto del 1926. In data 6 novembre del 1926, un decreto legge autorizzò l’emissione del c.d. prestito Littorio che imponeva la conversione in titoli consolidati (titoli senza scadenza come i consol inglesi) dei buoni ordinari, buoni quinquennali e buoni settennali per un valore di 20,5 miliardi di lire che rappresentava oltre un quinto del debito pubblico.
Il consolidamento impartì un grosso drenaggio di liquidità che, a fine dicembre 1927, permise al governo di ripristinare Quota 90 (di fatto 92,46 lire per una sterlina) e la convertibilità aurea. L’Italia pagò il ritorno al tallone aureo alle vecchie parità con una deflazione e alti tassi reali d’interesse (Notare che gli alti tassi di interesse penalizzano, fra gli altri, i vecchi detentori di titoli pubblici che vendono nel mercato secondario ma non influenzano il costo dell’indebitamento sul consolidatole che lo Stato paga). D’altra parte, la struttura del debito pubblico migliorò nettamente. In aggiunta, al decreto sul prestito Littorio fece seguito un secondo decreto che sopprimeva la Sezione autonoma del Consorzio e creava l’Istituto di Liquidazione, entrambi miranti a sgravare lo Stato dal costo dei salvataggi.1 Che lezione possiamo trarre da questo episodio?
Premetto che il giudizio della storia sul consolidamento tende ad essere influenzato dalla valutazione negativa che economisti e storici hanno dato, sulla scia del pensiero di John Maynard Keynes (in particolare The Economic Consequences of Mr. Churchill, 1925), sulla caparbietà della leadership dell’epoca a ripristinare il tallone aureo a parità pre-guerra. Tale politica comportò alti costi economici e sociali connessi con gli effetti della deflazione in un mondo in cui prezzi e salari sono relativamente rigidi. Ma a parte questo, bisogna riconoscere che il consolidamento forzoso del 1926 rappresentò un capitolo nel risanamento del debito pubblico italiano, il cui principale contributo lo dette la sistemazione dei debiti di guerra iniziata nel 1925 e completata poi dalla moratoria Hoover del 1931.
L’Italia di oggi condivide con l’Italia del 1926 il fardello di un imponente debito pubblico; per il resto esistono differenze sostanziali. L’Italia del 1926 era alla ricerca di una stabilità monetaria che intendeva raggiungere con il ritorno al gold standard. Con una sua banca centrale, anche se appena costituita, lo Stato italiano però aveva accesso incondizionato ad un prestatore di ultima istanza. Qualora il vincolo del tallone aureo si fosse manifestato troppo stretto, il governo avrebbe potuto abbandonare i cambi fissi e ricorrere alla sua banca centrale per il finanziamento dei deficit di bilancio (come di fatto fece negli anni Trenta). Infine, una grossa parte del debito pubblico era dovuto a stati esteri che, per effetto della guerra, erano disposti a fare concessioni su tale debito.
L’Italia di oggi, invece, opera in un’area caratterizzata da cambi permanentemente fissi (l’euro-area) e con una banca centrale (BCE) che rappresenta gli interessi non solo dell’Italia ma di una numerosa e eterogenea comunità di stati sovrani. La BCE esercita il ruolo di prestatore di ultima istanza nei confronti del sistema bancario: lo ha fatto durante la crisi dei subprime e lo continua fare oggi. Però non è autorizzata a farlo, per statuto, nei riguardi degli Stati membri. Per riguadagnare questo ruolo, l’Italia dovrebbe o convincere gli altri partner dell’euro-area a cambiare lo statuto oppure uscire dall’euro-area e re-introdurre una moneta nazionale. La prima opzione trova l’opposizione ferrea di alcuni stati membri dell’euro–area, la Germania in primis; la seconda è ostacolata da un forte costo di uscita. Infine, anche se una consistente proporzione (45 per cento) del debito pubblico italiano è detenuto all’estero, a differenza del 1926 i creditori di oggi non sono disposti a fare concessioni.
Un consolidamento del debito pubblico italiano potrebbe rappresentare una valida alternativa a soluzioni di risanamento che richiedono un forte impegno politico dei partner “forti” dell’euro-area, impegno che si scontra con un elettorato reticente nei confronti di una integrazione politico-fiscale dell’euro-area; questo vale tanto per la proposta eurobond quanto per un irrobustimento del fondo salva stati o una BCE accomodante. Il vantaggio di un consolidamento è che sarebbe l’Italia a decidere e non altri Paesi ad impoglierle piani di risanamenti. Una fra le tante varianti di consolidamento potrebbe essere una conversione forzosa di tutti i titoli al di sotto dei 10 anni in buoni del Tesoro decennali emessi o con una cedola fissa che non superi il tasso di inflazione target della BCE o, ancora meglio, con una cedola variabile che si adegui completamente o in parte al tasso ex-post di inflazione.
Indipendentemente dalla formula tecnica adottata, il consolidamento deve soddisfare due obiettivi: il primo è di liberare la politica economica dall’affanno del rinnovo del debito per un lasso di tempo sufficientemente lungo per completare un risanamento; il secondo è di abbassare il tasso di interesse reale sul debito pubblico a valori prossimi allo zero. Un consolidamento comporta un vincolo di bilancio stretto e immediato per il Tesoro. Non avendo più la reputazione per emettere titoli, lo Stato deve gioco forza limitare i flussi di spesa entro i flussi delle entrate (a parte prestiti concessi dalle banche). Questo ebbe luogo anche dopo il 1926 quando lo Stato non fù in grado di emettere BOT per diversi anni.
Considerando il grado di dimenticanza storica dei mercati finanziari nei confronti di stati che hanno ristrutturato i loro debiti, l’imposizione di un vincolo di bilancio forte e l’assenza di nuovi flussi di offerta di titoli pubblici gioverebbero a ridare fiducia ai titoli di stato italiani e a ridurne lo spread nei confronti del Bund entro tempi relativamente brevi, probabilmente entro cinque anni. Non bisogna illudersi che l’operazione sia a costo zero; se lo fosse non ci sarebbe dibattito. I detentori di titoli pubblici, sia in Italia che all’estero, incorrerebbero in una perdita di capitale se decidessero di rivenderli sul mercato secondario.
Lo Stato perderebbe la sua capacità di finanziarsi sui mercati finanziari durante il periodo di non-dimenticanza storica. L’economia soffrirebbe di alti tassi di interesse conseguenti al consolidamento fino a quando i mercati maturerebbero la convinzione che lo Stato italiano è sulla strada giusta per un risanamento duraturo del suo debito. Circa le banche, il tallone di Achille sia della crisi dei subprime che del debito sovrano, il consolidamento non dovrebbe danneggiarne seriamente i bilanci. Le banche che potrebbero utilizzare i titoli di stato a costo di capitale zero e senza accusare perdite di bilancio, purchè il regolatore conceda loro di collocare i titoli nella categoria holding period.
Il mercato, d’altra parte, le penalizzerebbe perché non contabilizza secondo i canoni dell’holding period. In sintesi, il consolidamento ha i suoi costi. Ma questi vanno valutati in relazione ai costi delle alternative. Le possibili soluzioni sono o di agire sugli stock (debito) o sui flussi (deficit di bilancio). I paesi “forti” dell’euro-area, non trovando un accordo su un programma serio sugli stock, “impongono” soluzioni drastiche sui flussi che penalizzano la crescita e le prospettive di un risanamento degli stock. Su quello italiano oggi grava un premio al rischio di 400 punti base, e l’economia non cresce. Il consolidamento del debito va valutato rispetto alle prospettive che si intravedono oggi e non in termini di un improbabile salvatore della Patria.
Leggi la proposta di Andrea Monorchio, ex Ragioniere generale dello Stato