Gli eventi incedono e c’è poco tempo per ricordare. Ma pur sempre si tratta di un compleanno. È da un lustro, dal 9 agosto del 2007, che è iniziata la Grande Crisi. Qualcosa che non avevamo mai visto e ci ha colto di sorpresa.
Fino a poco prima di allora, con rare eccezioni, la visione dominante tra economisti, politici e autorità era che il mondo stesse vivendo la cosiddetta Grande Moderazione, una specie di nuovo Eldorado con permanenti alta crescita nonché basse inflazione e disoccupazione. Ci veniva detto che questa fase felice – tradizionalmente si pensava invece a un tradeoff tra inflazione e disoccupazione – era il risultato di due mutamenti di assetto. Primo, si erano resi i mercati più funzionali: riducendone le inefficienze con interventi che per decenni avevano ampliato la sfera delle libere forze di mercato e della ricerca del profitto (e ristretto quella dello Stato e di forme d’iniziativa con obiettivi sociali); estendendo a livello globale la dimensione del mercato, prima limitata dai confini nazionali. Secondo, si erano rese non interventiste le politiche economiche e, in particolare, era diventata più credibile quella monetaria che ora si concentrava solo sull’inflazione al consumo (es. inflation targeting). Qualcuno obiettava che stavano crescendo grandi squilibri commerciali (specie tra gli USA e l’Asia orientale) e che, anche per quegli squilibri e per la deregolamentazione e l’innovazione finanziaria, aumentava gravemente il livello di indebitamento (talora pubblico, più spesso privato), costruendo pericolose fragilità. Ma gli veniva risposto di non preoccuparsi: i mercati erano in grado di badare a se stessi e bisognava lasciarli lavorare. Per inciso, in tale visione, con la sua stagnazione strisciante, l’Italia non era in grado di partecipare al banchetto della Grande Moderazione solo per ritardi suoi propri nell’applicazione del mantra del libero mercato.
È perciò uno shock profondo apprendere che la nuova crisi finanziaria di sistema dell’agosto 2007 non proviene da un’imperfetta periferia ma dal luminoso centro della finanza mondiale di Wall Street. E, attraverso i titoli tossici e altre diavolerie della finanza, gli eccessi d’indebitamento americani si erano innervati in gran parte dei sistemi finanziari avanzati. Come in un Truman show, ci si rende conto che dietro al posticcio sfondo di carta pesta col finto cielo azzurro vi è un cielo vero ma denso di nubi scure. Le banche centrali dei paesi avanzati smettono subito di guardare solo all’inflazione intervenendo per circoscrivere l’instabilità con possenti ed eterodosse iniezioni di liquidità. Ma la spirale dell’instabilità si è messa inesorabilmente in moto e i crescenti scricchiolii esplodono a settembre 2008 nel fallimento della seconda più grande banca d’investimento, Lehman Brothers. Si scopre il vaso di Pandora americano. I mercati finanziari paiono trascinati in un buco nero e, col senno di poi, le autorità USA rimpiangono subito di aver accettato quel fallimento, arrabattandosi a salvare tutte le altre periclitanti istituzioni finanziarie. Persino campioni del calibro di Goldman Sachs sono costretti a chiedere il sostegno pubblico. Altrettanto si fa in Europa dove, giova ricordarlo, l’Italia è uno dei pochi paesi a evitare interventi di salvataggio perché le nostre banche sono le meno contaminate da quella prima ondata di instabilità. E, siccome quegli interventi aggravano il debito pubblico dei paesi colpiti dalla crisi bancaria, il mancato aggravio fa bene ai conti pubblici nostrani.
L’onda d’urto dello sconquasso finanziario proveniente dal centro tende a produrre un blocco nei circuiti dell’economia globale generando una recessione che si teme porti a una lunga e profonda depressione, così come negli anni ‘30. Consci di ciò, i grandi del mondo aggiornano in fretta la governance del pianeta passando dall’ormai desueto G8 al più rappresentativo G20. Al meeting di Londra di aprile 2009, si enunciano lucidamente due linee di intervento emergenziali. Da un lato, tutti i governi si impegnano ad adottare politiche attive di sostegno alla ripresa. Perciò, mettendo in soffitta il credo non interventista della Grande Moderazione, le politiche monetarie (ovunque) e quelle fiscali (ove possibile) divengono assai espansive. Dall’altro, ci si impegna a una severa ri-regolamentazione che chiuda la stagione della finanza allegra (e della ‘light touch’ regulation) per ricostituire la stabilità finanziaria.
L’effetto delle politiche espansive si fa sentire. Nella seconda metà del 2009 e nel 2010 si manifesta una ripresa asimmetrica: più sostenuta nei paesi emergenti, meno forte in quelli avanzati, molti dei quali sono alle prese con una penosa opera di deleveraging (calo dell’indebitamento). Invece, i progressi nella ri-regolamentazione della finanza sono per lo più impalpabili, anche per il potere di veto dei grandi interessi finanziari che torna a manifestarsi. Così, anziché ricostituire le condizioni per la stabilità finanziaria, si ha l’impressione che le principali istituzioni finanziarie tornino a una sorta di ‘business as usual’, come se nulla fosse successo.
E poi anche la ripresa si affievolisce nel 2011 e ancor più nel 2012. Stavolta, il colpo decisivo lo dà la crisi dei debiti sovrani nell’Eurozona. A ben vedere, è difficile spiegare in termini economici come questa crisi sia potuta esplodere in un’area che, come si è ricordato varie volte, ha nel complesso un rapporto debito pubblico/PIL più basso degli USA – e ben inferiore al Giappone – e, soprattutto, un sostanziale equilibrio nei conti con l’estero. Tutto nasce dalla crisi del debito pubblico della Grecia che poi contagia l’Irlanda, il Portogallo e la Spagna e, infine, l’Italia (da luglio 2011). Si toglie così il coperchio al vaso di Pandora europeo.
Il modo meno costoso di risolvere la crisi greca era che l’Eurozona, forte dei suoi buoni fondamentali macroeconomici complessivi, si impegnasse a fornire tutte le garanzie e il sostegno necessari. Invece, per motivi che spiegheranno gli storici, sotto l’egemonia del direttorio tedesco-francese si afferma che gli investitori saranno chiamati a sopportare le perdite. È come gettare benzina sul fuoco. La crisi greca peggiora di continuo e il contagio si estende a tutti i paesi identificati come euro-deboli. A varie riprese si cerca di porre un argine alla crisi ma, per quanto ci si sforzi, ogni soluzione istituzionale identificata è come la tela di Penelope: ad ogni passo avanti ne segue uno (se non due) indietro. Nel frattempo, le principali istituzioni finanziarie, tornate al ‘business as usual’, sono ben liete di aver trovato in Europa una grassa prateria in cui pascolare agevolmente. Il risultato assurdo è che, mentre le altre principali economie si affannano con politiche espansive, il paradigma della disciplina fiscale e dei conti pubblici in ordine produce enormi bordate recessive nell’Eurozona, che poi si propagano su scala globale. Per di più, lasciati alla mercé della speculazione dalla percezione che la solidarietà da parte dei paesi euro-forti potrebbe non esserci, il rigore fiscale non pare risolvere il problema dei paesi euro-deboli ma li trascina a fondo in un avvitamento pericoloso di tensioni economiche e sociali.
Eravamo partiti dall’Eldorado e siamo approdati in un girone dell’Inferno di Dante? Una cosa è certa: anche questa crisi finirà. Però, se i governanti europei non sapranno ritrovare la fiducia reciproca, il costo per il vecchio continente sarà epocale. Sarebbe paradossale dover raccontare ai nostri nipoti che il solido ed equilibrato vascello dell’Eurozona si è frantumato perché guidatori inesperti non ne hanno saputo evitare l’impatto col bastimento anglo-americano, reso squilibrato dal dominio del capitalismo finanziario che produce instabilità, e con la flotta degli emergenti, apparentemente robusta ma troppo spesso guidata dal capitalismo di Stato e incapace di garantire libertà economiche e diritti individuali.