La Cina è ormai solo una minaccia o è ancora un’opportunità? Sul piano economico, si intende.
Trent’anni fa un illuminato leader degli imprenditori della seta comaschi, Moritz Mantero, mi commissionò un’analisi sulle prospettive di crescita della domanda interna cinese. Allora una camicetta Made in China, confezionata con il prezioso tessuto, costava quanto in Italia occorreva per acquistare la semplice materia prima. In apparenza, non c’era partita e uno dei più rinomati e ricchi distretti industriali italiani avrebbe dovuto gettare subito la spugna.
Invece, l’analisi mise in luce che, tra velocità di aumento del PIL e ampliamento del divario nella distribuzione del reddito (inevitabile quando un paese decolla industrialmente), si sarebbe presto formata una classe sociale affluente, in grado di ambire ad acquistare prodotti belli e ben fatti italiani. Se a ciò si aggiunge che, tra Marco Polo prima e Matteo Ricci poi (e molti altri italiani, tra cui Suor Cristina Paolazzi, missionaria dal 1890 al 1952), il popolo cinese adora l’Italia, un’ampia prospettiva di mercato si apriva. Tutta da conquistare, e faticosamente.
Oggi, alcuni credono che la parabola del miracolo economico del Celeste impero sia ormai nella fase discendente. E indicano il declino demografico quale segnale inequivocabile di ciò. Altri denunciano l’immorale autoritarismo delle autorità di Pechino, la loro sistematica violazione dei diritti umani (la repressione nella culla, ai primi vagiti, di ogni movimento libertario; l’oppressione feroce di chi professa credi religiosi) per ammonire a non fare commercio e non investire in quel paese, non considerando cosa possa voler dire governare un popolo quattro volte quello d’Europa, che è stata teatro di sanguinosissime guerre intestine. Chi teme di essere “spiato” nei comportamenti quotidiani dai giganti informatici come Huawei (e Google che fa?), e chi si sente già sull’orlo di una terza guerra mondiale, scatenata dall’espansionismo della Cina.
D’altra parte, lo straordinario sviluppo del benessere cinese è lì da vedere. Nelle statistiche e nella skyline delle megalopoli costiere e interne. Dal 1990 il PIL pro-capite si è moltiplicato di 17 volte. Se consideriamo che si tratta di 1,4 miliardi di persone, mai nella storia umana è stato fatto un tale balzo in avanti in così breve tempo per una tanto ampia moltitudine.
Nel totale, la ricchezza prodotta annualmente è salita di 40 volte in dollari correnti, sebbene sia di un terzo ancora inferiore a quella USA (ma è già tre volte quella nipponica, di cui era un decimo trent’anni fa). Convertita usando le parità di potere d’acquisto, che dribblano la questione della sistematica sottovalutazione dello yuan (del 40% secondo l’ultimo Big Mac Index ), è già di un 15% sopra quello statunitense.
Potete stare certi: questa crescita proseguirà. Perché non è un naturale e spontaneo fenomeno. Non è nemmeno l’esito di una concorrenza sleale basata sul basso costo del lavoro, o almeno non discende solo da quella (gli italiani non furono da meno, quando venne il loro turno di imboccare lo sviluppo). Ma è il frutto di una strategia e di conseguenti decisioni di politica economica. Ossia policies, mentre noi occidentali guardiamo all’ombelico delle politics.
Qualcuno, però, lo ha finalmente compreso. E dopo la sbornia ideologica del mercato che risolve tutto e tutto sistema, ha virato nettamente. Non è un altro despota autoritario. Si chiama Joe Biden. Il rapporto che l’amministrazione democratica ha appena sfornato su quattro filiere produttive ritenute prioritarie (semiconduttori, batterie per EV, materie prime rare, farmaceutica) è solo l’antipasto, l’avvio di una politica industriale che cambia il paradigma delle politiche economiche americane, dopo anni di apparente laissez-faire (ma sotto gli slogan, altro che laissez-faire!).
L’aspetto più intrigante è che a intestarsi questa svolta è la stessa Presidenza USA. Il rapporto, infatti, è firmato Biden-Harris. In altre parole, il settore manifatturiero al di là dell’Atlantico torna a essere considerato e trattato per quello che è: la sala macchine della crescita economica.
Forse anche il Governo Draghi dovrebbe seguire quell’esempio? L’Italia per poter prosperare, scriveva Mario Cipolla, deve esportare e mai cessare di inventare cose nuove che piacciono. Il nostro benessere, la sostenibilità del nostro debito pubblico, la coesione sociale dipendono da questa capacità. Molte corde vanno pizzicate nel modo giusto per avere un concerto per clavicembalo ben temperato. Ma il compositore e l’esecutore deve essere uno solo. E a lui spetta far comprendere che, qui e ora, o si fa rinascere l’Italia manifatturiera o si muore. Ps: sottolineiamo manifatturiero, non industria tout court e nemmeno organizzazione industriale, come soleva declamare un recente presidente di Confindustria, bisognoso di consenso e applausi. E dentro il manifatturiero, toccherà scegliere quel che può crescere di più, rientrando nei megatrend globali. Di floride nicchie prosperano singole imprese, non vive un intero Paese di 60 milioni di persone. Con tutto il dovuto rispetto e la sincera ammirazione per chiunque ha il coraggio di fare impresa, in Italia specialmente.