In queste settimane Sky sta trasmettendo la seconda stagione di Genius, la serie televisiva prodotta da National Geographic che ripercorre la vita e le esperienze artistiche dei geni che hanno segnato la cultura, l’arte e la scienza del Novecento. La prima stagione era dedicata alla vita di Albert Einstein con uno straordinario Geoffrey Rush. La seconda ricostruisce la vita e l’attività di Pablo Picasso interpretato da un ispirato Antonio Banderas che non ha avuto remore a definire questa sua interpretazione il ruolo della sua vita. Un personaggio che spicca anche nella fiction prodotta dal National Geographic è Dora Maar, fotografa e pittrice, amante di Picasso interpretata da Samantha Colley (già nella prima stagione, dove era la moglie di Einstein).
La relazione con Picasso durò nove anni, quando nel 1943 l’artista spagnolo la lasciò per la più giovane Françoise Gilot da cui Picasso ebbe due figli Paloma e Claude. Dopo l’abbandono di Picasso Dora cadde in una grande depressione che la portò al ricovero in un ospedale psichiatrico e successivamente fu presa in carico da Jacques Lacan che aveva in cura anche Pablo. Lacan riuscì a farle accettare la malattia. Fu l’unica amante a sopravvivere a Picasso senza suicidarsi. Il suicidio delle persone vicine affettivamente a Picasso è uno dei motivi sui quali insiste Genius. Dora si spense in solitudine del 1997. Di Dora Pablo soleva dire: «Era pazza molto prima di diventare pazza!». E Dora non mancava di ricambiarlo. Parlando del loro legame aveva detto: «Io non sono stata l’amante di Picasso. Lui era soltanto il mio padrone».
Su questa donna di eccezionale talento e fragilità abbiamo chiesto un contributo Valentina Sonzogni, storica dell’architettura e dell’arte e archivista presso Il Castello di Rivoli Museo d’arte contemporanea. Buona lettura.
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Il faut etre léger comme l’oiseau et non comme la plume
Paul Valéry
Come Leonora Carrington, Nusch Eluard, Jacqueline Lamba e non poche altre artiste della sua generazione, Dora Maar ha racchiuso in sé e nella sua opera l’esser donna, musa e artista. Donne lo erano, consapevoli e fiere di esserlo. La loro bellezza misteriosa, selvaggia e moderna — come solo in quegli anni si poteva essere — ritorna fino a noi dalle foto in bianco e nero che le ritraggono con vestiti di sartoria a Parigi e lunghi caffettani in Marocco o camicie di pizzo in Francia e dettagli etnici in Messico. Sempre in viaggio sulla scia delle loro passioni, queste donne erano cittadine del mondo per seguire la loro ispirazione artistica e, spesso, i loro compagni e mariti.
I loro compagni, appunto: Max Ernst, Paul Èluard, André Breton e Pablo Picasso, giganti assoluti della tela e della penna, pensatori irrequieti della generazione che, attraverso il sogno, aveva trovato l’unico modo di accesso possibile alla realtà tra le due guerre, in cui il domani non era affatto una certezza. Muse, quindi, felici e allenate ad esserlo grazie al loro spirito di rivolta contro le convenzioni (che le fece essere molto spesso amanti, poi mogli, poi amanti contemporaneamente ad altre mogli, e via dicendo), con i loro corpi spremuti dalla vita e dall’arte, muse schiacciate spesso da quegli uomini moderni nella penna e antichi nella testa.
Artiste
Artiste, infine, straordinarie. La generazione di donne e il gruppo di artiste alle quali la Maar fu vicina è senza dubbio uno dei bacini fertili dell’immaginario del Novecento, tra fotografia, arte e performance della quale personaggi come la Baronessa Elsa e Leonor Fini, ad esempio, furono precorritrici e maestre. Artiste che hanno saputo interpretare ciascuna a suo modo il Surrealismo e la femminilità, persino le meno conosciute come la cecoslovacca Toyen o la straordinaria Ithell Colquhoun.
Nel 2014 a Palazzo Fortuny a Venezia è stata allestita una mostra, Dora Maar. Nonostante Picasso (Catalogo Skira) che ha accolto l’opera altrettanto di Dora Maar, che è stata è ordinata in ricche sezioni a partire dai numerosi ritratti per i quali Maar posò come soggetto; per continuare con le fotografie di strada attraverso le quali ella documentò, soprattutto negli anni ’30 le condizioni dei lavoratori e dei poveri di Parigi e nelle strade spagnole; per finire con le immagini del suo periodo a contatto con l’avanguardia surrealista e la sua vita con Picasso, l’innominabile, mai dimenticato. La mostra è stata curata da Victoria Combalìa. Il percorso ha raccontato anche questa storia d’amore con lo scopo di portare alla luce il talento di Maar, senza indulgere né nel feticismo che si riserva ai grandi artisti, né nel voyeurismo che gli stessi provocano in noi, anche a distanza di anni, con le loro vite eccitanti e disordinate.
Dopo Picasso c’è solo Dio
A 29 anni, Dora Maar, figlia di un architetto croato e di madre francese, aveva già vissuto in Argentina, dove suo padre seguiva degli importanti cantieri e aveva già partecipato, accanto al Groupe Octobre e a Georges Bataille, a innescare la miccia che avrebbe dato fuoco all’avanguardia europea. Un giorno Picasso la scorge nel parigino Café des deux Magots mentre, giocando con un coltello tra le dita si ferisce e, impassibile, continua a spostare, ipnotizzata, la lama nello spazio minimo tra le dita, indifferente al sangue che macchia i guanti.
Leggenda narra che Picasso chiese a Dora quei guanti per custodirli gelosamente tra i suoi ricordi. Leggenda, perché la relazione evolverà in maniera diversa da quel mitizzato incontro, e li condurrà entrambi ad accelerare il loro rapporto fino all’inevitabile baratro: Picasso in un altro letto, Dora a dichiarare “Dopo Picasso c’è solo Dio”.
Dora fotografa
Il reportage di foto (provenienti dalla collezione del Museo Nacional Centro De Arte Reina Sofia) scattate dalla Maar a Picasso mentre dipinge Guernica nei mesi di maggio-giugno 1937, sono una testimonianza eccezionale di un’opera che è ormai considerata simbolo e patrimonio di tutti i popoli e di tutte le guerre. Picasso è in cravatta e stringe la sigaretta e gli arnesi da lavoro in mano, mentre concentrato ma con una certa nonchalance ritocca il quadro, forse prima di uscire per cenare a Le Sélect o al Dôme. Poi il quadro è fotografato nuovamente, questa volta senza l’artista e senza il colore e rivela, improvvisamente, anche a chi l’ha guardato un milione di volte, una segreta plasticità, una vocazione profondamente scultorea, l’anelito tridimensionale delle figure che sembrano urlare ancora più forte allo spettatore che le guarda attonito.
Eppure in mano a Dora Maar la macchina fotografica non è solo un occhio attento e perspicace, ma un mezzo da piegare con l’immaginazione, per viaggiare da un luogo all’altro e tra un corpo e l’altro.
Nascono così foto straordinarie come Pére Ubu del 1936 in cui la foto di un cucciolo di armadillo, verticalizzata e collocata di fronte allo spettatore come se anche l’animale fosse in piedi, diviene magicamente una creatura onirica e mostruosa, memore delle immagini spiazzanti di Bataille, del quale la Maar era stata la compagna, respirando a pieni polmoni il clima, surreal-entnografico della rivista Documents. Oppure nel collage fotografico in mostra, Aveugles à Versailles, in cui riunisce, sullo sfondo della reggia francese, un gruppo di non vedenti che solo in quella foto assurda può incontrarsi, poiché che si trattava di singole persone fotografate in luoghi diversi e distanti tra loro. Sembrano guardare, con i loro occhi bianchi, la meraviglia delle volte dipinte e sorridere, come in una foto scattata in posa.
La separazione da Picasso e la malattia
Il manifesto e il latente sono due degli aspetti delle opere della Maar, che rispecchiano altrettanti lati della sua personalità e alcuni sviluppi della sua tortuosa esistenza. Nel 1943, dopo sette anni di passione, si separa da Picasso che aveva appena conosciuto Françoise Gilot. Due anni dopo manifesta una preoccupante depressione e viene ricoverata in una clinica in Francia. L’amico Èluard e Picasso riescono a farla curare personalmente da Jacques Lacan che, assecondando una sua tendenza mistica, riesce a strapparla alla follia, non riuscendo però a riportarla in quel mondo che era forse troppo legato alla sua vita con Picasso.
Nei tanti anni prima della sua morte, sopravvenuta nel 1997 all’età di novant’anni, ella visse infatti una vita ai limiti della reclusione, scambiando contatti quasi esclusivamente con religiosi e con qualche vecchio amico del mondo dell’arte. Una persona in particolare, però, ebbe il privilegio di dialogare con lei: Victoria Combalìa curatrice di molte tra le sue retrospettive e anche di questa. Tra le due si sviluppò un curioso rapporto telefonico poiché la Maar non voleva più incontrare nessuno, condito di lunghi dialoghi e confidenze che sono servite come base per la biografia scritta dalla stessa Combalìa, Más allá de Picasso (Circe Ediciones, Barcellona 2013).
Gradiva
Dora Maar fu l’incarnazione, a suo modo e suo malgrado, della Gradiva, di “colei che risplende nel camminare”, la misteriosa donna-musa narrata dallo scrittore tedesco Wilhelm Jensen nella novella Gradiva. Una fantasia pompeiana, (in seguito analizzata in un lungo saggio da Sigmund Freud), figura amata dai Surrealisti e ritratta da André Masson in un quadro pieno di simboli e rimandi. Un’eroina tragica e splendente che continua a incantare con le sue opere straordinarie narrando sogni, ossessioni, passioni di un momento fondamentale nel percorso artistico del Novecento.