La parola più usata è “guerra”. Ma siamo sicuri che si tratti della parola giusta? E comunque, cosa vogliamo dire, in realtà? Di “guerra”, al terrore, parlammo anche dopo l’attacco di Al-Qaida, l’11 settembre 2001, tanto che gli alleati offrirono agli Stati Uniti la solidarietà dell’art.5 del Trattato di Washington, la mobilitazione della Nato.
Allora gli statunitensi preferirono seguire altre strade per condurre il loro attacco ad Al-Qaida e al governo dei talebani, in Afghanistan, che offriva ai terroristi rifugio ed aiuto. La Nato intervenne in quel paese solo più tardi, per condurre un processo di stabilizzazione e state-building che è ancora oggi in forse.
La Turchia ha chiesto la solidarietà della Nato, sulla base dell’art. 5, contro gli attacchi terroristici, non solo dell’Isis e di Al-Qaida, ma anche, secondo Ankara, dei curdi del Pkk e, indirettamente, del governo di Bashar el Assad, in Siria. Gli alleati hanno espresso solidarietà, ma non hanno avviato una mobilitazione collettiva.
Nessuno ha ancora parlato ufficialmente dell’art. 5 e della Nato per rispondere agli attacchi terroristici di Parigi, ma molte voci si sono levate per sostenere che la guerra all’Isis dovrebbe diventare compito della Nato. Non è chiaro se questa responsabilità della Alleanza dovrebbe estendersi solo all’Iraq, anche alla Siria e infine a tutti o ad alcuni degli altri territori controllati da affiliazioni dell’Isis come ad esempio in Libia, nel Sinai, in Yemen, in Nigeria o altrove.
Le due facce del terrorismo
Il problema ha due facce, una interna e una internazionale. Esse sono collegate, ma restano tra loro molto diverse ed autonome. Da un lato ci sono i terroristi che hanno colpito la Francia e che potranno domani colpire altri paesi, europei e non. Questi terroristi pongono un grosso problema di sicurezza interna, ma non una minaccia di tipo militare.
Essi sono ispirati dall’Isis, ma sono anche autonomi, e il loro reclutamento è in genere opera di predicatori e “cattivi maestri” insediati in Europa, anche se si nutrono dei proclami e degli slogan che circolano su Internet e che sono elaborati e diffusi dalla centrale propagandistica dell’Isis.
Con qualche forzatura, volendo restare nella logica della “guerra”, potremmo definirli una “quinta colonna”. La lotta contro di loro richiede un’intensa azione investigativa e di intelligence oltre ad una forte opera di contro-propaganda e di mobilitazione sociale, soprattutto all’interno delle comunità etniche e religiose d’origine.
Quadro delle alleanze adatte ai nostri fini
Dall’altro lato ci sono l’Isis e i territori controllati dalle sue bande e da quelle ad esso affiliate. In questi casi è necessario un intervento militare, per spezzarne l’iniziativa e per negare loro il controllo del territorio. Questo potrebbe anche divenire compito della Nato, ma solo a condizione che l’arrivo dell’Alleanza non complichi la condotta politico-strategica delle operazioni, invece di semplificarla (come certamente avverrebbe sul piano meramente operativo e tattico).
In altri termini, bisogna valutare qual è il quadro delle alleanze che riteniamo più adatto ai nostri fini e, su questa base, decidere anche del ruolo e delle responsabilità della Nato.
Così, ad esempio, quali saranno i nostri alleati regionali? Ce ne sono molti, forse troppi, dalla Turchia all’Iran, dall’Arabia Saudita ad Israele, dall’Egitto alla Russia, oltre ai curdi (di varia estrazione e fede politica), al governo di Baghdad e alle tante fazioni siriane. Molti di essi sono tra loro incompatibili ed ognuno ha le sue priorità e i suoi obiettivi, diversi l’uno dall’altro, e spesso dai nostri.
È chiaro come sia necessario esercitare una dura pressione militare sull’Isis annullando la sua attuale immagine “vincente” – che alimenta il suo reclutamento internazionale – e distruggendo quanto più possibile delle sue capacità militari, finanziarie e propagandistiche.
Tuttavia è chiaro che questo potrà avere successo solo assicurando un realistico e stabile controllo dei territori che verranno man mano “liberati”: cacciarlo da quei territori è il primo passo necessario, impedirgli di ritornare è il secondo, ed è qui che diventa determinante la scelta degli alleati, visto che nessuno pensa di rimettere in piedi un sistema coloniale.
Parlare di “guerra” può dare idee semplicistiche e sbagliate. Così, ad esempio, c’è chi pensa che un eventuale intervento alleato in Siria ed Iraq potrebbe essere analogo all’intervento alleato in Germania durante la II Guerra Mondiale, terminato con la suddivisione della Germania in territori affidati alla responsabilità primaria di una delle potenze vincitrici, che ha rapidamente portato alla creazione delle due Germanie, quella democratica occidentale e quella comunista orientale e, dopo il crollo del muro di Berlino e del blocco comunista, alla loro finale riunificazione.
Lotta al brigantaggio, non guerra
In questa ipotesi si procederebbe (un po’ come è avvenuto per l’ex-federazione jugoslava) ad affidare porzioni di territorio all’autogoverno delle fazioni o delle etnie dominanti in quell’area al termine delle operazioni militari, magari sotto il controllo tutelare delle Nazioni Unite o degli alleati.
Questa situazione è però molto diversa da quelle, e stiamo vedendo anche in Europa i problemi che la crescente frammentazione di stati nazionali, dal Regno Unito alla Spagna, rischia di porre. Moltiplichiamoli per cento e vediamo che cosa potrebbe accadere in tutto il Medio Oriente ed in Africa. Chi pensa di poter governare un simile processo?
Ed infine, veramente vogliamo regalare a questi terroristi e a queste bande di assassini sanguinari, che non rispettano né le leggi di guerra né gli stessi precetti umanitari della loro religione, la dignità di definirli come un nemico legittimo? Dobbiamo forse inviare una formale dichiarazione di guerra all’Isis, o non dobbiamo piuttosto condurre una muscolosa e decisa operazione di polizia internazionale per mettere fine al controllo su estesi territori da parte di bande di briganti?
Questa è lotta al brigantaggio, non guerra.
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