È sempre più buio appena prima dell’alba. Le parole di Thomas Fuller (storico e teologo inglese del 1600) soccorrono al racconto del momento.
Il 2020 è finito male (e come poteva essere altrimenti?). Il 2021, invece, è cominciato peggio. E, senza apparire grilli parlanti (che fanno sempre una meritata brutta fine perché pesantemente saccenti), anche questo cattivo avvio era prevedibile e previsto. Ma il prosieguo sarà meglio.
Infatti, è vero che l’odissea nella pandemia prosegue. Ma è arrivata all’inizio della fine. Perché si è imboccata la strada del ritorno verso la normalità nella vita sociale ed economica. Sebbene sarà una normalità diversa da quella che conoscevamo. Magari più sana.
Tuttavia, la strada dell’approdo alla Itaca dell’immunità dal virus, per la salute e per l’economia, si presenta ancora difficile. Per tre ragioni
Anzitutto il virus impazza. Perché la variante inglese è molto più contagiosa (finalmente i nazionalisti britannici hanno qualcosa di cui menar vanto!). Perché la pausa natalizia nelle restrizioni alla vita di relazione, con relativa corsa ai regali, ha fatto inevitabilmente impennare i contagi e i decessi. E la sua mortifera coda si allungherà nei prossimi giorni (quanto basta all’incubazione per fare il suo corso, dopo i brindisi di Capodanno e la corsa ai saldi).
Tutti i dati indicano univocamente che la pandemia rimane fuori controllo nei maggiori paesi occidentali. Il lockdown autunnale è stato troppo breve e parziale (non se ne abbiano a male quanti lo hanno subito in pieno, e sono tanti, purtroppo) per riportarla nell’alveo della (assai imperfetta) tracciabilità. I nuovi contagiati ufficiali hanno smesso di scendere. Quelli “veri” stimabili sulla base dei decessi sono un multiplo elevato degli ufficiali e tale multiplo è il vero termometro della capacità di monitorare la diffusione del Covid-19: più alto è lui, più bassa è lei. Il tasso di positività è pure molto elevato e in alcuni paesi crescente, nonostante l’alto numero di test (è il caso degli USA).
In secondo luogo, le nuove e più dure restrizioni che sono state varate salveranno molte vite ma inevitabilmente, essendo lo strumento sanitario più rozzo, produrranno altri danni al tessuto produttivo. E non tutti potranno essere riparati dalle misure di sollievo messe in campo dai governi e dalle Banche centrali, mai così alleati e ben coordinati.
Numerose imprese chiuderanno, soprattutto piccole. Lavoratori rimarranno più a lungo disoccupati. I piani di licenziamento, già approntati, dalle grandi aziende, che si devono ridimensionare per adeguare i costi ai più bassi ricavi, partiranno appena l’emergenza solidaristica cesserà.
Nelle Lancette di novembre rappresentavamo proprio la difficoltà crescente di resistere all’allungarsi della crisi. La durata si trasforma così in intensità e profondità. E queste ultime prolungano le sofferenze, umane prima che bancarie. Delle sofferenze bancarie parla indirettamente il denso rapporto del Gruppo dei 30, che fa ottime raccomandazioni su come meglio calibrare gli interventi di politica economica. Raccomandazioni, tuttavia, per nulla facili da mettere in pratica.
Dalle ceneri della pandemia e dall’innesto della tecnologia emergeranno certamente altri business e posti di lavoro si creeranno, come sempre è accaduto, ma la transizione è spesso lenta e il cambiamento non indolore.
Se i tempi dell’introduzione delle nuove tecnologie ci apparivano già troppo veloci per le nostre capacità di adattamento, la crisi da pandemia li ha accelerati. D’altra parte, proprio grazie a questa accelerazione sono stati approntati vaccini così velocemente. Questi sono i nostri Tempi moderni. Perciò conviene seguire sul serio il consiglio del medico a Charlot: «Prenda le cose come vengono ed eviti le emozioni». Sebbene noi, come il protagonista, partecipiamo alla «crociata dell’umanità nel perseguimento della felicità».
In terzo luogo, decisiva nell’accorciare e alleviare le sofferenze personali ed economiche (sempre più difficile scindere le due sfere) è la campagna di vaccinazione, che è ora il vero focus. Rilevare quante persone sono state vaccinate e quante dosi sono somministrate non è un una «conta agghiacciante» (arriverà mai la resa dei conti politici per personaggi come Gallera?), ma l’indicatore fondamentale per comprendere se vinceremo o perderemo la guerra contro il Covid-19.
La campagna è cominciata, e questo è già un fatto molto positivo. Chi mai al principio di ottobre avrebbe scommesso che saremmo stati in grado di somministrare un vaccino entro la fine del 2020? Allora la elaborazione delle risposte degli esperti dava un 50% di probabilità di avere un solo vaccino per la fine di aprile di quest’anno e un 85% per fine dicembre. Oggi ce ne sono ben tre. E altri tre sono in dirittura d’arrivo (senza considerare quelli russi e cinesi, già in somministrazione a 1,5 miliardi di persone vaccinabili). La scienza ha superato se stessa, con un’esemplare collaborazione e condivisione di informazioni.
La sfida maggiore, tuttavia, è nell’ultimo miglio: l’iniezione. In Italia, per riuscire a ottenere l’immunizzazione nell’arco di un anno occorre che 1,5 milioni di dosi alla settimana siano iniettate. L’obiettivo governativo sembra essere 450mila. Sicuramente sconta l’incapacità amministrativa del Paese. Ma così non riusciremo mai tornare a vita libera (si veda il bell’articolo di Boeri e Perotti su la Repubblica del 4 gennaio). Assestarsi su un numero così inadeguatamente basso ricorda quanti scagliano la freccia e poi disegnano l’obiettivo intorno al punto dove è caduta per dire che hanno fatto centro.
Le difficoltà di somministrazione stanno mettendo alla prova altri paesi, a iniziare dagli Stati Uniti. D’altronde, con grande parte di medici e infermieri impegnati a curare gli infetti la scarsità di personale specializzato aumenta. Siamo presi in un girone kafkiano. E l’Italia non va peggio di altri, in termini di vaccinazioni effettuate per cento abitanti. In testa c’è Israele, ma non è un modello imitabile, per ovvie ragioni logistiche (paese piccolo e pochi abitanti) e culturali (sono militarizzati nello spirito, essendo in assetto di guerra permanente).
Tuttavia arriverà l’estate e il caldo ci sarà alleato sul primo fronte (riduzione degli infetti da curare) per liberare risorse sul secondo (la vaccinazione). Questo vuol dire che la seconda metà dell’anno è un buon termine a cui guardare per calibrare le attese di svincolo dalle catene del virus (data l’incapacità provata di conviverci).
La festa della liberazione dal virus potrebbe essere anticipata, se la vaccinazione delle persone fragili e più esposte procederà rapidamente. Si tratta comunque di molte persone: facendo conto sul retro di una busta, in Italia circa la metà dei 39 milioni sopra i 15 anni che dovrebbero essere vaccinati secondo i programmi. Allora potremmo immaginare la seconda parte della primavera come momento del liberi (quasi) tutti. Tutto ciò per capire quando davvero l’economia potrà iniziare a tornare verso la nuova normalità. Per recuperare il pieno regime occorrerà qualche altro trimestre, forse anno.
Se nell’esame delle prospettive economiche l’avvio della vaccinazione è una prima buona notizia, la seconda è l’«ondata blu» negli USA. Intesa non come un’altra malattia o come una catastrofe naturale o un agente inquinante, ma come la conquista del Senato da parte del Partito democratico. Ciò consentirà al neoeletto Presidente Biden di varare buona parte del suo programma elettorale di stimolo e riforma dell’economia. Che darà una notevole spinta alla crescita nei prossimi quattro anni (+4,2% media annua secondo Moody’s Analytics) di quella che in dollari correnti resta la prima economia del Mondo.
Un programma che si somma all’ulteriore pacchetto votato prima dello scioglimento del Congresso americano fine 2020. Da solo questo mette in tasca a famiglie e imprese sufficiente denaro per annullare qualsiasi perdita da pandemia. Il resto, quindi, sarà in sovrappiù.
Ce n’è abbastanza per alzare lo sguardo dalla valle di lacrime in cui siamo e guardare con un timido sorriso di ottimismo al dopodomani.
A proposito della valle, gli indicatori congiunturali coincidenti, derivati dalle indagini IHS Markit presso i direttori degli acquisti (PMI), forniscono un quadro di tenuta della crescita a livello globale in dicembre, ma con forti differenze territoriali e settoriali. Il manifatturiero rallenta un po’ la velocità che era molto elevata, mentre il terziario accelera appena.
La Cina e l’Oriente lontano proseguono la corsa, grazie all’aver tenuto sotto controllo l’epidemia. Gli Usa sono costretti a rallentare a causa della perdita di controllo del virus, ma comunque crescono assai rapidamente. L’Eurozona e l’Europa in generale sono obbligate a rimanere in zona recessiva, per la stessa ragione americana ma con meno voglia di spendere e inferiori aiuti pubblici che al di là dell’Atlantico.
Il punto è che, come nei mesi passati, anche questi che sono i dati più freschi invecchiano in fretta perché non riescono a incorporare l’andamento dei contagi. Stando alle nuove restrizioni varate in UK e Germania, che anche gli altri dovranno imitare, per quanto obtorto collo, gennaio vedrà un’ulteriore frenata congiunturale.
Quindi, con ogni probabilità, quest’anno i mesi più bui per l’economia e la vita sociale sono proprio i primi tre. Con la primavera arriveranno i germogli di vera ripresa.