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Dopo il Covid cambia tutto e si riparte da zero

Pubblichiamo un estratto del libro “Novizi senza fine”, edito da Guerini e goWare, in cui Franco Civelli e Daniele Manara provano ad immaginare come cambierà il mondo dopo la pandemia che ancora ci opprime

Dopo il Covid cambia tutto e si riparte da zero

Shock

La pandemia ci costringe indubbiamente a guardare alla realtà, e anche a noi stessi, con occhi nuovi. I paradigmi conosciuti, quelli della società industriale (consumismo, mass media, viaggi, dominio sulle risorse naturali) che hanno permeato la formazione e la mentalità delle persone e delle organizzazioni, sembrano superati di colpo.

In un intervento di un anno fa, Anne-Marie Slaughter, Ceo di New America (think-tank e piattaforma civica tra le più considerate del mondo), ha interpretato bene questo stato di cose, quando, sul “New York Times”, ha scritto:

«il coronavirus con le sue ricadute economiche e sociali è una macchina del tempo per il futuro. I cambiamenti che molti di noi avevano previsto si sarebbero verificati nell’arco di decenni si stanno realizzando invece nell’arco di pochissime settimane».

Azzeramento

E ce ne siamo accorti! Nessuno riesce più a ritrovarsi nello schema consueto. Siamo diventati tutti dei novizi del mondo.

E Novizi senza fine è il bel titolo di un libro di Franco Civelli e Daniele Manara appena uscito in libreria in formato cartaceo (Guerini) e in digitale (Guerini con goWare). La “bella” tesi del libro è che, dopo il vaccino, ci attende un noviziato senza fine a prescindere dall’età, dalle esperienze e dal luogo dove viviamo e lavoriamo. Dobbiamo ripartire da zero, dall’abc.

Il bello è anche che sarà un fenomeno globale che spazzerà via la pigrizia e la compiacenza e porterà innovazione nei metodi, nella mentalità e un aggiornamento continuo delle conoscenze e delle esperienze. Si verificherà a qualsiasi livello, ma sarà un processo molto più pronunciato nel mondo delle organizzazioni e delle imprese.

I due autori di Novizi senza Fine, forti di ampie e robuste letture e di un’importante esperienza sul campo, cercano di immaginare, nelle 370 pagine del libro, le sfide che andremo a incontrare in questo “camino” verso un futuro che, forse, è già qui.

In ogni caso, i due autori rimangono sostanzialmente positivi, convinti come sono che le persone, per le loro capacità di adattamento all’ambiente e di sviluppo di nuove conoscenze — come mostra anche la straordinaria responsività alla minaccia della pandemia — , sono destinate a mantenere, nella costruzione di quel che verrà, il posto di guida e il ruolo centrale grazie anche all’apporto delle macchine, della tecnologia amica e dei sistemi di intelligenza artificiale.

Siamo lieti di offrire ai nostri lettori un estratto da Novizi senza fine che affronta uno dei temi di maggiore confronto nel dibattito pubblico attuale, quello dell’intelligenza del futuro. Sarà ancora una, o saranno molte.

Riconoscere l’intelligenza

Capire significa, in fondo, mettere una cosa in relazione a un’altra, ed è una modalità con la quale si riconosce l’intelligenza, l’«intelligere». Cercare di descrivere cos’è l’intelligenza, cosa che sembra immediata e chiara ai più, in realtà significa sostanzialmente muoversi in un terreno insidioso con poche certezze. E anche il tentativo di misurarla rappresenta, da tempo, l’occasione di forti controversie. Cosa misura esattamente il QI (Quoziente di Intelligenza) e cosa invece il QE (Quoziente Emozionale)[1]? Quale intelligenza c’è nelle emozioni[2]?

Nella capacità di risolvere problemi (il «problem solving») quali talenti, attitudini, abilità, capacità, conoscenze, esperienze, competenze vengono attivati? Davanti all’incremento di prestazioni decisionali si è andata affermando la consuetudine di chiamare «intelligente» qualunque aggeggio contenesse un microprocessore senza porsi altri più sottili quesiti[3].

Boncinelli e Sciarretta, a fronte dei dispositivi di intelligenza artificiale che consentono di operare in sequenza, in attività ripetitive, processando dati su dati molto più rapidamente dell’uomo, ritengono che abbia poco senso mettere in competizione l’uomo con le macchine che, utilizzate in opportune operazioni, sono decisamente più rapide, precise e affidabili.

Se si può azzardare un collegamento, è come quando l’uomo, nel corso dei secoli, partendo da Icaro in avanti, ha cercato di volare, in analogia con gli uccelli, accumulando un fallimento dietro l’altro riuscendovi, con successo, solamente quando ha progettato e realizzato un dispositivo più pesante dell’aria, che poco aveva di analogico con i volatili, ovvero l’aereo, avvalendosi di nuovi concetti della fisica e, in particolare, del contributo di Bernoulli alla flui-dodinamica.

L’intelligenza sociale

Nel mondo del lavoro a molti sarà capitato di imbattersi in persone con risultati scolastici eccellenti, che magari hanno superato brillantemente le batterie di test previste per entrare a far parte del ristretto circolo del Mensa[4], salvo poi scoprire che le stesse persone sono incapaci di risolvere problemi connessi alla quotidiana attività lavorativa e manifestano difficoltà di comprensione del contesto.

L’«intelligenza sociale»[5] sembra non venga favorita come insegnamento nei percorsi di studio nonostante svolga, nei fatti, un ruolo prioritario nel mondo delle organizzazioni, nella socializzazione al lavoro, nelle dinamiche relazionali.

Non si può, poi, ignorare un tema enorme per rilevanza che, in questa sede, accenniamo appena, ovvero la stupidità indotta dai sistemi organizzativi nel mondo del lavoro e non solo in questo[6] e i fenomeni delle «incapacità apprese» e dell’«impotenza appresa»[7]. Per quanto riguarda i fenomeni connessi alla stupidità nelle organizzazioni ricordiamo la «stupidità funzionale», così definita da Alvesson e Spicer, caratterizzata dalla mancanza di riflessione sui modelli caratteristici della realtà organizzativa (comportamenti organizzativi, procedure, processi, normative ecc.), sulla mancanza dei motivi per cui si agisce/non si agisce a fronte di determinate situazioni e, infine, sulle conseguenze delle azioni attivate[8].

La non intelligenza artificiale

Un interessante contributo critico su quello che viene denominato «tecnosciovinismo», basato sulla convinzione che le tecnologie rappresentino, in ogni caso, «la soluzione» e, soprattutto, sul fatto che non sempre le «intelligenze artificiali» sono davvero intelligenti, ci viene proposto da Meredith Broussard, docente alla New York University[9], nel libro La non intelligenza artificiale.

L’autrice sostiene che non è affatto vero che i problemi sociali siano inevitabilmente destinati a scomparire di fronte a un’utopica società digitale. I recenti fatti connessi al Covid-19 e la relativa pandemia hanno messo in luce quanto sia complessa una società «sempre più complessa», essendo convinti che non sia solamente un gioco di parole. E anche quanto sia difficile la gestione della «solitudine digitale» in una realtà iperconnessa[10], fortemente caratterizzata da quella che è stata definita «info-demia».

Intelligenza fluida e intelligenza cristallizzata

Già a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo, lo psicologo statunitense Raymond Cattell (1963) ha evidenziato una sostanziale differenza tra «intelligenza fluida» e «intelligenza cristallizzata».

L’intelligenza fluida viene definita come la capacità di percepire relazioni indipendentemente da precedenti esperienze o istruzioni connesse a queste relazioni.

L’intelligenza cristallizzata implica, invece, la conoscenza di quanto deriva da precedenti esperienze di apprendimento o da specifici processi e percorsi formativi.

Si tratta del tradizionale e complesso processo tra cervello, mente, anima, coscienza, tra pensiero e conoscenza che ha visto da sempre impegnati filosofi, psicologi, teologi ecc. E che oggi coinvolge, tra gli altri, i neuroscienziati, chiamati, a loro volta, a confrontarsi con le diverse tecnologie di intelligenza artificiale[11]. E il complesso rapporto tra mente e cervello? Tra mente e corpo? Quanto ci aiutano a comprenderli la biologia, la filosofia, la psicologia?

Intelligenze multiple

Dobbiamo poi tenere conto che non è possibile definire un’unica forma di intelligenza, tanto che c’è chi come Howard Gardner[12] evidenzia l’esistenza di «intelligenze multiple». E riprendendo quanto sostenuto da Susan Greenfield, un fondamentale interrogativo riguarda che tipo di «impronta» le tecnologie digitali lasciano nel cervello delle persone e nei loro comportamenti e quale impatto determinano sulle diverse generazioni (ad esempio sui cosiddetti «nativi digitali»), tanto che si può considerare e riconoscere una vera e propria generazione app («App generation»)[13].

Una «generazione tecnologica» che in molti casi, e con elevata frequenza, risulta essere più breve delle precedenti generazioni genealogiche, politiche, economiche e culturali[14]. Una generazione, la Z Generation, che comprende chi è nato tra la seconda metà degli anni Novanta e il 2010, cresciuta in un ambiente e in un mondo wireless e che Janna Quitney Anderson (Elon University) ha definito AO, «Always On»[15].

Va preso in considerazione anche il digital divide, che non può essere circoscritto solamente alla componente generazionale, ma che chiama in causa molteplici altri fattori con differente rilevanza quali l’accesso, i fattori economici e tecnologici, le differenze di genere o di gruppi etnici.

La personalizzazione dell’intelligenza

Una possibile definizione neuroscientifica di mente, tra le innumerevoli possibili, riguarda «la personalizzazione del cervello umano attraverso la sua connessione/connettività dinamica neuronale in relazione alla specifica unicità delle esperienze del singolo individuo»[16].

È certo che l’intelligenza artificiale, nelle forme attuali, esercita già forti riflessi su interi ambiti applicativi e sicuramente avrà ripercussioni sulla società e sulle persone nel prossimo futuro che oggi, forse, possono essere solamente immaginate[17]. Ci sarà un’esplosione dell’intelligenza come si chiede Max Tegmark, tra i fondatori del Future of Life Institute (Fli)[18], nel presentare una serie di possibili scenari? Certo si affacciano interrogativi molteplici, di non facile soluzione, che necessariamente non devono circoscriversi alle sole minacce, alle distopie, ma aiutare a configurare nuove opportunità per le persone, per le organizzazioni e per la società nel suo insieme.

In una sua opera, Edgar Morin, filosofo e sociologo francese, evidenzia come «la conoscenza, diventata problematica, rende problematica la mente produttrice della conoscenza, che oggi rende enigmatico il cervello produttore della mente. Così giungiamo alla relazione inseparabile e circolare fra realtà, conoscenza, mente e cervello. Scopriamo un ignoto in ciascuno di essi e, cosa paradossale, l’ignoto si trova all’interno di ciò che conosciamo e di chi conosce»[19].

L’essere digitale

Ma, come già accennato, cambia il concetto stesso di individuo, o quanto meno si comprende di vivere, nella società 4.0, un punto di svolta nella concezione di individuo. Clotilde Leguil, psicoanalista e filosofa francese[20], concentra l’attenzione sull’Io, sulla coscienza di sé, e sul rischio che, in qualche misura, l’individuo corre di essere messo in discussione se non di scomparire come tale nella sua unicità, nel suo essere soggetto di pensiero, di parola, di desideri, di angoscia.

Soggetto in un mondo che si caratterizza, tra gli altri, per l’uomo neuronale, per l’individuo macchina, per gli umani modificati e aumentati e per essere, questi ultimi, i cloni di se stessi, individui diventati prodotto della tecnologia o del progresso scientifico.

Il rischio di trovarsi al cospetto di un «essere informatico» che nella mondializzazione, nella globalizzazione perde la sua unicità e specificità per diventare un nodo di scambio di informazioni, costretto a cambiare il rapporto tra l’«essere» di ciascuno e la propria esistenza.

Sempre la Leguil evidenzia come le persone del XXI secolo abitino, in misura minore rispetto al recente passato, la loro storia assorbite dal mondo virtuale che collega gli uni e gli altri, in tempo reale. Individui che sempre meno sanno chi sono e, allo stesso tempo, non si rendono conto di essere ridotti a una somma di dati che riassumono la loro esistenza che ne condiziona i comportamenti.

Mondo, sempre secondo l’autrice, dove si affacciano alcuni significativi pericoli per l’«Io» della persona, quali l’«identità totale», la «quantificazione», il «narcisismo di massa»[21]. Pericoli che, a diverso titolo, erano già comparsi, in modo rilevante, nei contributi, ad esempio, di Aldous Huxley (1931)[22] e di George Orwell (1949)[23], autori sicuramente caratterizzati da innegabili e rilevanti capacità anticipatorie.

Note

[1] Il QI (Quoziente d’Intelligenza) è rappresentato da un punteggio ottenuto tramite un test standardizzato con lo scopo di misurare l’intelligenza. E il dibattito su cosa sia l’intelligenza e/o su cosa siano le intelligenze in relazione a cosa (ad esempio: prestazione) e per cosa (ad esempio: soluzione di problemi) anima da oltre un secolo il dibattito tra psicologi e studiosi delle scienze sociali. Il QE (Quoziente Emozionale) va a misurare l’Intelligenza Emotiva, la capacità di comprendere e gestire efficacemente le proprie e le altrui emozioni. Dal 1990 ad oggi è oggetto di studi e ricerche sulla valutazione, regolazione e utilizzo delle emozioni.

[2] M.C. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, Bologna 2004. La filosofa nordamericana affronta questo complesso aspetto che riguarda, da un punto di vista neo-stoico, le emozioni in relazione a qualcosa, a qualcuno, a un oggetto. L’essere in relazione è parte dell’identità, delle emozioni, delle credenze rispetto a un oggetto; credenze che sono relative al valore, alla rilevanza allo stesso attribuiti. L’autrice rispetto all’interrogativo «come deve vivere un essere umano?» afferma il concetto di eudaimonia, ovvero che concezione ha la persona di una vita umana piena e prospera, di una vita umana completa (p. 52).

[3] E. Boncinelli, G. Sciarretta, Homo faber. Storia dell’uomo artefice dalla preistoria alle biotecnologie, Baldini & Castoldi, Milano 2015, affermano che «le prestazioni complessive delle facoltà decisionali vengono comunemente chiamate intelligenza» (p. 228).

[4] https://mensa.it/. Nel 1946 nasce il Mensa, un’associazione composta da persone con un quoziente intellettivo decisamente elevato. Questo a seguito dello sviluppo massiccio delle applicazioni dei test psico-attitudinali nel mondo della scuola e del lavoro. In particolare negli Usa, ma anche in molti altri Paesi (Canada, Australia, UK, Francia ecc.). Il 1° ottobre 1946 a Oxford l’avvocato inglese Lancelot L. Ware e l’australiano Roland Berril fondarono il Mensa. La principale finalità indicata dai fondatori dell’associazione, che intendeva proporsi con un respiro mondiale, era di «Scoprire, incoraggiare e promuovere l’intelligenza umana a beneficio dell’Umanità; senza fini politici né ideologico-religiosi, né di lucro e senza distinzioni di razza, sesso e ceto di provenienza». Dopo oltre cinquant’anni, il Mensa è presente nel mondo in più di cento nazioni e conta oltre centomila soci regolarmente iscritti. Nel 1983 nasce il Mensa anche in Italia. A quasi quarant’anni dalla Fondazione del Mensa si tiene a Roma un incontro fra un gruppo di soci italiani del Mensa Internazionale, che danno vita al Mensa Italia. Tra questi Menotti Cossu, Enrico Mariani, Donato Bramanti, Renato Zaccaria e Carlo Degli Esposti (deceduto nel 2000) fondano, con atto costitutivo del 29 giugno 1983, l’Associazione italiana e ne diventano, insieme a Tilde Marinetti, Francesco Pinto e Guido Sabbatini, il primo consiglio direttivo. Per entrare a far parte del Mensa è necessario aver raggiunto o superato il 98° percentile in una prova basata su test di intelligenza. Per essere sottoposti al Test Finale di ammissione al Mensa è sufficiente prendere contatto con uno degli assistenti al test elencati nella pagina del Mensa Italia del gruppo locale più vicino e prendere appuntamento.

[5] Per intelligenza sociale si intende la capacità di comprendere e di relazionarsi con gli altri in un dato contesto socio-organizzativo attivando gli opportuni comportamenti.

[6] M. Alvesson, A. Spicer, Il paradosso della stupidità. Il potere e le trappole della stupidità nel mondo del lavoro, Raffaello Cortina, Milano 2017. Gli autori presentano i pro e i contro della «stupidità funzionale». Come non ricordare, tra i contributi classici, C.M. Cipolla, Allegro ma non troppo. Le leggi fondamentali della stupidità umana, Il Mulino, Bologna 1988.

[7] M.E.P. Seligman, Imparare l’ottimismo. Come cambiare la vita cambiando pensiero, Giunti, Firenze 2013.

[8] M. Alvesson, A. Spicer, Il paradosso della stupidità, cit., pp. 70 sg.

[9] M. Broussard, La non intelligenza artificiale, Franco Angeli, Milano 2020.

[10] M. Spitzer, Solitudine digitale. Disadattati, isolati, capaci solo di una vita virtuale?, Corbaccio-Garzanti, Milano 2016. L’autore, psichiatra ed esperto in neuroscienze, è direttore del Centro per le Neuroscienze e l’Apprendimento dell’Università di Ulm.

[11] R.M. Restak, Le grandi domande. Mente, Dedalo, Bari 2013.

[12] H. Gardner, Educazione e sviluppo della mente. Intelligenze multiple e apprendimento, Erickson, Trento 2005. Howard Gardner è docente di Cognitivismo e Pedagogia ad Harvard. Le diverse intelligenze nella loro pluralità che vengono identificate da Gardner sono rispettivamente linguistica, logico-matematica, musicale, spaziale, cinestesico-corporea, interpersonale e intrapersonale, naturalistica ed esistenziale.

[13] H. Gardner, K. Davis, Generazione App. La testa dei giovani e il nuovo mondo digitale, Feltrinelli, Milano 2014. La scelta degli autori è di superare l’attenzione sulla tecnologia di per sé che solitamente caratterizza definizioni quali «generazione digitale», o anche «generazione web» per considerare la psicologia di chi usa la tecnologia. In altri termini cosa significa oggi essere una persona giovane nelle diverse dimensioni cognitiva, sociale, emotiva ed etica.

[15] L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina, Milano 2017, pp. 48 sg. La generazione Z non concepisce una vita al di fuori di quella che viene definita infosfera, che sempre più assorbe ogni altra realtà, dove i confini tra on line e off line sono sempre più sfumati in una realtà dominata dall’informazione, una realtà che Floridi definisce «on life». Una realtà caratterizzata da una «quarta rivoluzione», dopo quelle che nella storia della scienza e del pensiero sono state segnate da Copernico, da Darwin e da Freud.

[17] M. Tegmark, Vita 3.0. Essere umani nell’era dell’intelligenza artificiale, Raffael-lo Cortina, Milano 2018.

[18] Il Future of Life Institute (Fli) ha come missione di favorire gli sviluppi dell’AI in modo positivo, definendola «intelligenza benefica» e sicura, al fine di evitare derive pericolose.

[19] E. Morin, Conoscenza, ignoranza, mistero, Raffaello Cortina, Milano 2018, p. 8.

[20] C. Leguil, «Je». Une traversée des identités, Puf, Paris 2018.

[21] All’identità totale contribuiscono dimensioni di carattere politico e, semplificando al massimo, già a partire dalla Repubblica di Platone con le forme di tirannia, per proseguire in forme e con connotazioni differenti nel corso del tempo dei regimi appunto totalitari e totalizzanti, nelle società di massa dove l’Io rappresenta una minaccia. Ambiti dove i pensieri, le parole, i comportamenti, il privato sono condizionati, definiti dal «regime totalizzante», dalla psicologia delle folle, dal linguaggio totalizzante sulla base di un «bene sovrano» relativo che in Freud e in Lacan è la psicologia del Me e non dell’Io (p. 43). Per quanto riguarda la quantificazione il pericolo è dato dal fatto di voler tradurre tutte le esperienze soggettive in termini quantificabili. A una spinta all’uniformità si affianca la quantificazione dei fenomeni. L’individuo è invitato a misurare continuamente le proprie azioni in termini di produzione e di produttività, le mail che invia e che riceve ma anche attraverso appositi dispositivi il numero di calorie, i passi e i tempi nel percorrere una data distanza ecc. Ma l’individuo è anche spinto a misurare se stesso, secondo scale diverse dal proprio corpo e dalle proprie dimensioni psicologiche. A quantificare il proprio Sé. Il narcisismo di massa si afferma anche attraverso la diffusione sempre più estesa e intensa dei social e non solo dove la persona è portata a rappresentare e contemplare se stessa attraverso gli altri. Secondo la Leguil i Big Data annullano il cogito cartesiano e quindi l’«io sono» della persona. Il narcisismo di massa è quello che resta dell’io nell’era della globalizzazione L’io che non è del tutto scollegato dal narcisismo ma che tende a scollegarsi in quanto prevale il versante immaginario che è presente in rete.

[22] A. Huxley, Il mondo nuovo. Ritorno al mondo nuovo, Mondadori, Milano 2015.

[23] G. Orwell, 1984, Mondadori, Milano 1950.

Da: Franco Civelli e Daniele Manara, NOVIZI SENZA FINE. Competenza e capability 4.0, Guerini e associati (con goWare per la versione digitale), 2021, pp. 199–204.

Gli autori

Franco Civelli, management consultant, opera da oltre trent’anni nei settori del Change Management, dello sviluppo organizzativo e manageriale, in organizzazioni pubbliche e in imprese profit nazionali, internazionali e non profit. Coach e docente universitario, international speaker, è autore di numerose pubblicazioni sulle tematiche del management, delle modalità di apprendimento, delle competenze trasversali. Ha pubblicato per Guerini e Associati Il comunicatore pubblico (con Vito Piccinni, 2002), e Lavorare con le competenze (con Daniele Manara, 2009).

Daniele Manara ha lavorato per oltre trent’anni nell’area del personale e ha ricoperto il ruolo di Direttore HR e Organizzazione presso prestigiose aziende italiane e importanti società multinazionali. Ha ottenuto la certificazione per la costruzione di modelli di competenze a seguito della collaborazione con il prof. Richard E. Boyatzis della Case Western University di Cleveland. Dal 2008 svolge attività di consulenza in ambito HR e Organizzazione presso società ed enti pubblici. Per Guerini e Associati ha pubblicato Lavorare con le competenze (con ranco Civelli, 2009).

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