Questa la cruda sintesi del dibattito tenutosi il 28 giugno alla London School of Economics, notoriamente filo-europea, e ripreso da un noto tabloid. Se il Regno Unito non ride, l’Unione Europea non può che piangere, colpevole di aver deviato dalla rotta originaria di integrazione sociale. L’UK, in un revival di orgoglio nazionale, si presenta un paese frammentato: la vecchia Inghilterra contro Scozia e Irlanda del Nord, le città contro le campagne e piccoli centri, i giovani contro i vecchi, risultato di una drammatica alleanza tra meno istruiti e rigidi conservatori. Disastri sociali messi al nudo dal leave su cui hanno soffiato populismi ed estremismi.
Non pochi problemi per il successore di Cameron. Che il Regno covasse da sempre un euroscetticismo e’ cosa nota; quando entrò nell’Unione nel 1973 il Times sentenziò ” Europe is in”, lasciando intendere che dovevano gli altri paesi a seguire le orme della lunga esperienza britannica nei rapporti commerciali, finanziari e nelle politiche migratorie; non viceversa. Due anni dopo un referendum sancì a grande maggioranza l’adesione al progetto europeo. Lo strappo del 23 giugno passerà alla storia come rinuncia a guidare il cambiamento dell’Unione “dall’interno” come aveva iniziato a fare introducendo in molto settori regole virtuose ispirate alla common law. Se e quando si appellerà all’articolo 50 del Trattato di Lisbona dovrà affrontare il difficile compito di rinunciare ai quattro capisaldi dell’Unione: liberi movimenti di persone, capitali, beni e servizi.
Potrà solo pendere qualche beneficio senza realizzare guadagni significativi. L’UE, da parte sua, colleziona un’altra sconfitta al suo modo di operare, verticistico e burocratico, sprezzante dei sentimenti popolari e intriso di minacce, ritorsioni o ricatti verso chi non la pensa come i capi. La crisi di identità ed insieme le prospettive di rilancio dell’UE sono tutte legate ad un radicale cambio di rotta. Se si continua a pensare solo alla moneta e alle banche si apre il baratro della disintegrazione. Se invece prevarrà il buon senso semplicemente recuperando i principi del Manifesto di Ventotene nel 1941 che parlava di pace e crescita sociale, allora il ciclone Brexit avrà avuto il merito di imprimere quella auspicata sferzata necessaria per riprendere un cammino più equo e giusto a favore degli emarginati dai benefici della globalizzazione e tartassati dai superpoteri della finanza.
Il terremoto Brexit impone all’UE un salto di qualità, non certo per piegarsi agli antistorici e demagogici proclami degli anti-establishment, ma per recuperare i valori originari di coesione sociale. Con un auspicio di realismo ci aspettiamo si riconosca innanzitutto il fallimento delle politiche di austerità e la necessità di riformare, semplificandole, le istituzioni, visto che il progetto di integrazione politica non è più certo ipotizzabile in un’Europa tanto variegata. Le elezioni spagnole danno un messaggio in parte riassicurante, ma il fronte dei contestatori può essere arginato solo mutando le scelte politiche e riformando le istituzioni in senso democratico. Per rendere ciò credibile ci vuole un ricambio di leadership al vertice della Commissione e del Parlamento. E prima dei sei mesi indicati da Renzi, prima che inizi il negoziato per l’uscita del Regno Unito.
È il Parlamento, come unico organo eletto democraticamente, che deve riprendere le redini del processo di integrazione impegnandosi su questioni solo di indubbio interesse sovranazionale e rispondenti alle richieste che provengono dal basso. La più urgente è un deciso controllo dell’immigrazione rafforzando le frontiere esterne ai paesi Schengen, gestendo in comune i rimpatri e varando politiche di cooperazione con quei paesi che collaboreranno all’accoglienza degli espatriati illegali. Difficile ma necessario perché lo richiedono gli europei e perché bisogna riconoscere che il tanto predicato umanitarismo non risponde alla realtà effettiva dell’ospitalità nei nostri paesi e peraltro danneggia in modo irreparabile i paesi di provenienza. Sul piano economico va corretta l’austerità a tutti i costi escludendo dal vincolo di bilancio gli investimenti produttivi e limitando la sorveglianza al deficit di parte corrente. La tutela dell’euro è ormai fuori di discussione ed è bene lasciare che se ne occupi la BCE.
E’ poi necessario completare l’Unione bancaria con la garanzia comune sui depositi e dar concretezza ad una graduale armonizzazione dei sistemi fiscali iniziando dalle aliquote Iva. La Germania sarà determinante sempre che si dimostri sensibile al rilancio di un rinnovato europeismo e se vuole evitare tracolli elettorali all’appuntamento del 2017. Ma la dimostrazione concreta che l’Europa è viva e sensibile al benessere dei suoi cittadini potrà discendere esclusivamente dalla capacità che avrà la nuova leadership di lanciare politiche sociali in grado di correggere l’inasprimento delle ineguaglianze e di puntare al benessere comune. Ad esempio varando misure per l’assicurazione comune contro la disoccupazione, per una graduale armonizzazione dei sistemi di previdenza e, specialmente, per armonizzare i sistemi scolastici ed universitari. Potremmo auspicare un’UNIONE SOCIALE EUROPEA? *Fondazione Roma Sapienza-Cooperazione Internazionale