Meno male che ci sono il Quirinale e la Bce. Senza Giorgio Napolitano e senza Mario Draghi, che vegliano – e soprattutto agiscono – sul presente e sul futuro dell’Italia e dell’Europa, chissà dove saremmo. Chiamatelo pure semipresidenzialismo, se volete, ma il secco altolà del Capo dello Stato ai sogni di crisi coltivati a sinistra sulle ali dell’indecente caso Alfano ha avuto l’effetto immediato di blindare il governo Letta spianando la strada alla conferma della fiducia al Senato.
Intendiamoci: la gestione della vicenda kazaka resta “inaudita” (le parole sono dello stesso del Presidente della Repubblica) e i presupposti per sfiduciare il ministro dell’Interno, o almeno sdoppiarne la funzione lasciandolo solo vicepremier, c’erano tutti, ma ancora una volta Napolitano ci ha regalato una grande lezione di politica, ricordandoci che una delle prime virtù che un buon politico deve avere è quella di calcolare in anticipo gli effetti delle sue mosse.
Se per cacciare Alfano – come in teoria era giusto che fosse – fossimo andati incontro a una prevedibile crisi di governo, quali sarebbero stati per l’Italia gli effetti sui mercati finanziari e sulla scena internazionale? Ma, soprattutto: quale sarebbe la maggioranza alternativa a questo governo? O si dà una risposta convincente a questo interrogativo o ci si perde in chiacchere da spiaggia. Non essendo uscito dalle urne elettori un chiaro vincitore, è evidente che il governo delle larghe intese è una sofferenza quotidiana che obbliga a estenuanti mediazioni, ma questo non vuol dire – come vedremo più avanti – condannarsi all’immobilismo o rassegnarsi al più basso dei compromessi.
Insieme a Napolitano, Mario Draghi è stato l’altro grande protagonista di una settimana turbinosa e piena di sorprese anche sul piano finanziario, come l’arresto in massa della famiglia Ligresti per le indecorose ruberie ai danni di 12 mila risparmiatori di Fonsai sotto lo sguardo complice dell’Authority delle assicurazioni e come la svolta storica di Siena dove Alessandro Profumo ha portato a casa l’archiviazione del tetto azionario del 4% in Mps che apre le porte a nuovi soci. Ma una sorpresa è stata anche la discesa in campo di Urbano Cairo nell’azionariato Rcs.
Il nuovo colpo d’ala di Draghi che ha allentato la stretta sui collaterali per i prestiti delle banche alle piccole e medie imprese è il segnale che l’Europa non ha ancora perso la speranza si rialzare la testa e di riprendere la strada della ripresa cominciando dalla normalizzazione del credito. L’iniziativa di Draghi, sempre guardato a vista dai falchi delle Bundesbank, non è la panacea di tutti i male, ma è un sasso nello stagno. I passi del Quirinale e della Bce, ciascuno nel suo campo, sono le condizioni necessarie – stabilità politica e liquidità per il sistema produttivo – per uscire dalla più spaventaosa recessione del dopoguerra ma non sono sufficienti. Altri devono fare la loro parte e se il Governo c’è è ora che batta un colpo. Non basta galleggiare.
E’ tempo di decisioni forti. Sia sul piano del debito che della crescita. Si potrà anche discutere sull’opportunità o meno segnalata dal ministro dell’Economia di cedere quote di società pubbliche quotate, ma è del tutto evidente che, con le sue parole, Fabrizio Saccomanni ha voluto far capire ai mercati e alle istituzioni internazionali che in autunno il Governo intende riaprire il dossier delle privatizzazioni come veicolo per abbattere il debito pubblico. Esattamente come ha promesso Enrico Letta, nel suo recente incontro con la comunità finanziaria della City.
Ottime intenzioni, a patto che arrivino presto i fatti. E che la riduzione del debito sia accompagnata da interventi anche sul piano della crescita. Da qualche tempo circolano eccellenti idee tra i nostri investitori istituzionali che il Governo farebbe bene a raccogliere. Il presidente di Assogestioni, Domenico Siniscalco, che non per caso era presente all’incontro di Letta con la City, va sostenendo che una parte del patrimonio dei fondi comuni di investimento potrebbe essere destinata, in condizioni fiscali favorevoli agli investitori di lungo periodo, al sostegno e al rafforzamento del nostro sistema produttivo e in particolare delle nostre piccole e medie imprese.
Una linea non molto dissimile da quella sostenuta, nella recente assemblea, dal presidente dell’Ania, Aldo Minucci, che ha annunciato la disponibilità, a certe condizioni, delle assicurazioni italiane ad agire da investitori stabili e di lungo periodo nel sistema produttivo italiano. Sono tutti segnali interessanti che spetta al Governo approfondire e raccogliere.
Ma al Governo Letta tocca anche di affrontare il toro per le corna e di non derubricare la riduzione delle tasse su lavoro e sulle imprese, che è l’unico modo per dare vero slancio allo sviluppo e per uscire dalla palude della recessione. Naturalmente servono risorse e pazienza se bisognerà dare qualche delusione al Pdl sull’Imu e sull’Iva e qualche dolore ai sindacati e al Pd sui tagli di spesa. Il compromesso è il sale della politica ma mediare non vuol dire stare fermi e per lo sviluppo è proprio ora di puntare i piedi. Giustamente Enrico Letta aveva dichiarato, nel suo discorso iniziale sulla fiducia, che non avrebbe governato a qualunque costo. Sacrosanto. E’ tempo di osare e di sfidare gli avversari del cambiamento.