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Donne iraniane: il velo dipinto di Shirin Neshat, artista che vive in esilio a New York, è il loro vessillo

Wikimedia Commons Di Manfred Werner - Tsui - Opera propria, CC BY-SA 3.0,

È un patimento, anche per noi che viviamo a quasi 5mila chilometri di distanza, parlare dell’Iran di oggi, un paese che reca ancora vive le tracce di una delle più grandi e affascinanti civiltà del nostro pianeta.

Figuriamoci che cosa può rappresentare il pensarlo, immaginarlo e rappresentarlo per un’artista iraniana in esilio volontario dal 1974 a 10mila chilometri dalla sua terra e dalle sue radici.

Indubbiamente la cifra che caratterizza il lavoro della fotografa e artista multimediale Shirin Neshat, esule a new York, è proprio il dolore, l’afflizione, la mestizia. Ma anche l’imperativo categorico del riscatto.

Dolore, ma non rassegnazione

Forse il manifesto più sincero e scioccante del dolore della Neshat per lo stato delle cose nel proprio paese – visitato solo una volta dopo il suo trasferimento in America – sono le iscrizioni in lingua farsi impresse sulle residue parti scoperte dei corpi delle donne iraniane intabarrate e velate. Siamo nella serie fotografica Le donne di Allah realizzata a metà degli anni Novanta.

I versi di poetesse iraniane poste sulla pelle delle donne secondo la tecnica della calligrafia islamica (che ha lasciato splendide testimonianze artistiche) hanno anche il valore di un cri de guerre nei confronti del regime che le soggioga.

Si vede certamente il dolore in questi scatti, ma non la rassegnazione. Si vede la volontà di resistenza che esce indomita dai volti fieri e regali delle donne che hanno deciso di posare di fronte all’obiettivo della Neshat.

Un sentire quest’ultimo che appare ancor più esplicito nelle armi imbracciate da quelle stesse donne in Rapture, una installazione del 1999 premiata con il Leone d’Oro alla 48° Biennale d’arte di Venezia.

Un’artista multimediale

L’arte della Neshat non si esprime solo per il tramite della fotografia. Lei è anche una videomaker e una regista di lungometraggi di primissimo ordine. 

Il suo primo lungometraggio cinematografico Donne senza uomini, adattato dall’omonimo romanzo della scrittrice iraniana Shahrnush Parsipur, è stato premiato con Il Leone d’Argento per la miglior regia alla mostra del cinema di Venezia del 1999. 

Oggi per descrivere le vicende del suo paese sarebbe più consono il titolo di un libro, diventato anche due film (su Prime Video e Apple TV) , dello scrittore svedese Stieg Larsson, Uomini che odiano le donne, con un superbo personaggio femminile (Lisbeth Salander).

Di seguito Susanne John vi parlerà più estesamente della vita e del lavoro di questa straordinaria artista alla quale guardano molte donne che stanno sfidando nelle piazze delle città iraniane il regime che gli nega le più elementari libertà. 

Il testo è estratto dal bel libro Messe a fuoco. Storie e battaglie di 40 donne fotografe

Donne col chador: l’identità femminile nel mondo musulmano di Susanne John

Shirin Neshat è oggi la più famosa fotografa e videoartista iraniana, naturalizzata americana. È nata nel 1957 in Iran, ai tempi della monarchia dello scià Reza Pahlavi e grazie a una situazione economica familiare florida e a un padre progressista che aderì alla visione politica del monarca, Shirin e le sue sorelle furono libere di scegliere i propri studi.

All’inizio degli anni Sessanta ci fu la cosiddetta “rivoluzione bianca”, con un dettagliato programma di modernizzazione economica e sociale dell’Iran, orientato decisamente verso modelli occidentali e portato avanti proclamando libertà di religione.

Fu proprio quest’agenda politica che garantì a Shirin un’infanzia e adolescenza in piena autonomia fino alla metà degli anni Settanta, quando il clima cominciò a cambiare drasticamente. 

Il trasferimento negli Stati Uniti

Intuendo che la situazione stava precipitando, Shirin decise di trasferirsi negli Stati Uniti per continuare i suoi studi lontano da eventuali pericoli. Dovettero passare più di dieci anni prima che la fotografa decidesse di recarsi in Iran per una breve visita: evento che si sarebbe rivelato profondamente traumatico e determinante per la sua scelta di esilio volontario permanente negli Stati Uniti.

Rimase sconvolta quando si dovette confrontare con i radicali cambiamenti causati dalla rivoluzione islamica, che avevano avuto un brutale impatto soprattutto sulla vita delle donne che Shirin vide ora camminare per strada avvolte in chador che lasciavano scoperti solo il volto e le mani in una società agli antipodi di quella nella quale era cresciuta.

Per decifrare la vita all’interno della Repubblica islamica, con i suoi rigidi diktat teocratici e un governo dualista in parte democratico e in parte dittatoriale, decise di voler testimoniare varie situazioni contraddittorie. Per realizzare il progetto scelse inizialmente il mezzo fotografico e come soggetto il corpo delle donne iraniane attraverso il quale allargare lo sguardo sulla società radicalmente cambiata: si dedicò a documentare la limitazione della loro libertà, la loro lotta per migliorare il proprio status sociale, ma anche la loro adesione all’islamismo contemporaneo e il loro interagire con un mondo maschilista deciso a controllare in modo capillare la loro volontà.

Le donne di Allah

Fra il 1993 e il 1997 nacque la prima famosa serie fotografica Women of Allah (Donne di Allah). Un progetto che si distingue per il forte impatto visivo e un diffuso aspetto poetico. Le donne protagoniste del suo ampio progetto portano tutte il velo: Shirin si concentra per lo più sui volti, sulle mani e sui piedi.

La pelle delle parti scoperte è ricoperta da un fiume di parole scritte in calligrafia persiana, il farsi, la lingua con cui l’artista era cresciuta: la maggior parte dei testi riprodotti sono poesie e opere di donne iraniane scritte prima o dopo la rivoluzione.

Le parole rivelano la forza e la volontà delle donne iraniane di non farsi considerare vittime e di non arrendersi al loro destino. I ritratti promuovono l’idea di figure femminili coraggiose che non accettano l’invisibilità, che sanno anche ribellarsi alle leggi islamiche, ma che nel contempo non intendono rinnegare la loro appartenenza religiosa, culturale e intellettuale.

Le donne di Neshat non sono quelle rassegnate e sottomesse secondo la più comune visione occidentale che considera il velo solo un obbligo umiliante: esse non temono gli uomini e rispondono con uno sguardo di fiera intensità. E non mancano parole di sostegno al compagno impegnato nella lotta islamista.

Le guerriere

Nel 1995 l’artista presenta il suo progetto Seeking Martyrdom (Cercando il martirio). Immagini scioccanti, dove fra le altre donne presenta anche se stessa con un fucile tra le mani colorate di color sangue: Neshat, la guerriera, ha scelto l’arte come arma per lottare contro censura e oppressione, creando ritratti provocanti di non facile interpretazione. Nel 1999 Shirin Neshat ha cambiato mezzo e realizzato delle installazioni video fra cui Rapture, dove affronta il tema della discriminazione fra i sessi in Iran. Contrappone due schermi dove, fisicamente separati, si muovono da un lato gruppi di uomini vestiti in modo informale e dall’altro gruppi di donne avvolte in chador neri svolazzanti. Immagini potenti che trasmettono inquietudine e incertezza.

Nello stesso anno l’artista ha vinto il Leone d’Oro alla 48° Biennale di Venezia per il miglior progetto artistico. Altre installazioni video dello stesso anno mettono a confronto il rapporto con la religione nel mondo islamico e in quello cristiano.

Sono messaggi articolati e complessi: mentre nel mondo islamico l’individuo rischia di sparire a causa di ferree imposizioni, nel mondo occidentale l’individuo rischia di allontanarsi sempre di più dalla dimensione spirituale.

Donne senza uomini

Nel 2009 ha perfino esordito come regista con il film Women Without Men (Donne senza Uomini), premiato a Venezia per la migliore regia con il Leone d’Argento.

Il film narra con delicatezza e profonda empatia le storie di quattro donne islamiche la cui vita le porterà a incontrarsi in un mondo difficile e pieno di dolore.

Nel suo progetto fotografico più recente dal titolo Land of Dreams (Paese dei sogni), realizzato ancora una volta in bianco e nero, l’artista propone un racconto che si sviluppa in più di cento scatti per parlare dell’incrinarsi del mito dell’America quale terra promessa, dove ognuno trova un’opportunità per ricominciare.

Nel suo progetto fotografico affiancato da due installazioni video e da un film, Neshat sceglie l’America di Trump per denunciare politiche antidemocratiche e razziste. 

Shirin ha saputo sviluppare durante la sua attività un linguaggio artistico squisitamente personale. Partendo dalla fotografia ha fatto suoi anche la forza espressiva del video e del mezzo cinematografico per parlare di femminismo e politica, democrazia e religione, di diritti umani e impegno sociale.

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L’artista, che vive e lavora a New York, ha ottenuto negli anni molti riconoscimenti internazionali e continua a esporre i suoi lavori in tutto il mondo, ma non in Iran, suo Paese natale.

Categories: Cultura