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Donald Trump è il nuovo volto dell’America e l’erede dell’isolazionismo e del protezionismo

Il ritorno trionfale di Donald Trump segna l’ascesa di un’America isolazionista e protezionista, minacciando l’ordine globale e la posizione di New York come capitale finanziaria. Il mondo dovrà fare i conti con un nuovo e destabilizzante volto degli Stati Uniti e per l’Europa i rischi sono grossi

Donald Trump è il nuovo volto dell’America e l’erede dell’isolazionismo e del protezionismo

I trumpiani del mondo intero festeggiano, anche in Italia, gli altri si disperano. Il trionfale ritorno del pluricondannato e condannabile ex presidente Donald Trump invita a qualche prospettiva storica.

Gli Stati Uniti hanno già vissuto una stagione analoga a quella attuale. Ricordarla aiuta a capire Donald Trump e il trumpismo, i grossi rischi che con lui corrono l’America e il mondo intero, e un voto che lo ha confermato ora padrone assoluto del partito repubblicano e uomo simbolo dell’America di oggi, o almeno della sua maggioranza elettorale. Vincitore di misura nel 2016, sconfitto di misura nel 2020, squalificato almeno avrebbe dovuto esserlo per il golpe che mirava a stravolgere quattro anni fa i risultati elettorali, Trump sarebbe rimasto, senza il 5 novembre 2024, una fastidiosa e imbarazzante presenza, ma tutto sommato un incidente di percorso nella storia presidenziale del suo Paese. Adesso è il volto e l’anima degli Stati Uniti. E pensare che se la attuale Corte Suprema non lo avesse salvato stravolgendo il 1° luglio scorso, e anche prima, la lettera e lo spirito della Costituzione circa i poteri presidenziali in questi giorni avrebbe dovuto essere in carcere.

Questo è il nuovo volto dell’America.

Il volto nuovo dell’America: tra isolamento e protezionismo

Gli anni 20 del Novecento videro negli Stati Uniti quattro scelte cruciali. La distruzione da parte dell’ala isolazionista del partito repubblicano del presidente democratico Woodrow Wilson (ne uscì quasi pazzo e del tutto impari al ruolo presidenziale) e del suo disegno di fare degli Stati Uniti l’asse dell’equilibrio internazionale subentrando a una Gran Bretagna ormai finanziariamente stremata, dopo essersi schierato al suo fianco nel 1917 nelle trincee d’Europa.

Con questo venne la conseguente affermazione dell’isolazionismo che rimarrà fino al dicembre 1941 la stella polare per la maggioranza degli americani. Non si può dimenticare che il presidente Franklin D. Roosevelt, deciso ad aiutare Londra dal 1940, a un certo punto autorizzò prima di Pearl Harbour la scorta dei convogli in Atlantico da parte dei cacciatorpedinieri americani. Tre furono affondati dai sommergibili tedeschi e Roosevelt non fiatò, perché rompere le relazioni diplomatiche con Hitler equivaleva ad avvicinarsi alla guerra e larghi settori dell’elettorato americano, repubblicani spesso ma anche democratici, erano fortemente contrari. Lo stesso isolazionismo non finirà con Pearl Harbour, e il ritorno in forze degli Stati Uniti in Europa nel 1947-48 con il Piano Marshall, la Nato e l’appoggio ai primi passi della futura Ue trovarono sempre al Congresso e nel Paese un nutrito fronte di oppositori.

Trump, l’erede di un secolo di isolazionismo americano

Di questo isolazionismo Trump è l’erede diretto. Come è erede ancor più diretto del protezionismo e delle norme antimmigrazione. Entrambi gli strumenti furono tra le specifiche misure degli anni 20, con le tariffe che massacrarono attraverso le ritorsioni e poi le svalutazioni competitive tutta l’economia del ventennio, la seconda parte soprattutto, e ancora dopo. I limiti all’immigrazione, allora diversa da quella attuale e basata su regole e numeri concordati, furono altrettanto severe, soprattutto per i Paesi del Mediterraneo, dei Balcani e dell’Europa centrale, e per gli ebrei. Su immigrazione e tariffe Trump ha condotto gran parte della campagna elettorale appena conclusa.

Ma come fa un Paese isolazionista e protezionista ad essere il perno del sistema internazionale e a pretendere il libero accesso ai mercati? Come potrà Trump parlare con autorevolezza in qualsiasi consesso internazionale se la barra americana sarà fissa sull’isolazionismo? E infine, come potrà New York continuare ad essere la capitale finanziaria mondiale in un’America isolazionista? Trump e i suoi sembrano non rendersi conto che la fine del ruolo americano è il primo degli obiettivi geopolitici di Mosca e di Pechino, ma soprattutto di Mosca, che non ha neppure l’ombra del peso economico cinese da gettare sul tavolo dei potenti. Negli anni ’20 e ’30 la finanza americana, guidata dalla Federal Reserve di New York, fu attivissima in Europa e altrove, affermando il ruolo di New York come creditore di ultima istanza e facendo con la finanza quella politica estera che la diplomazia a mani legate non poteva fare. Ma la finanza mondiale è diversa oggi da quella di allora.

“Lo vedo come una completa aberrazione nella nostra storia nazionale, un uomo il cui disprezzo per la democrazia costituzionale fa di lui una minaccia senza pari alla nostra nazione”, ha scritto due giorni fa lo storico Jon (sic) Meacham, autore di studi molto lodati su vari presidenti.

Trump e l’Europa: tra partner e antagonisti globali

In Europa la parola d’ordine sembrava essere fino alla sera del 5 novembre un nervoso, ma formalmente tranquillo “cercheremo comunque di avere buoni rapporti con chiunque sia l’inquilino della Casa Bianca”. Ma Trump vorrà trattare? E come, da partner o da bullo del quartiere? Trump è un conclamato avversario dell’Europa di Bruxelles e favorevole a uno smembramento della Ue, troppo grossa commercialmente per poter essere presa a spintoni. Lui e Putin vogliono per diversi motivi la stessa cosa: un’Europa di Stati-nazione, staterelli alla fine, con i quali poter fare la voce grossa. E il Trump che si prepara a tornare alla Casa Bianca sarà molto diverso, e molto peggio, del Trump 2016-2020, perché tutto è pronto per smantellare quei condizionamenti che la Washington della Difesa, della diplomazia e dell’Intelligence, e altri, hanno fatto valere alcuni anni fa.

Tom Nichols ha scritto recentemente per The Atlantic un apprezzato confronto fra due presidenti, George Washington, fedele al mandato, forte di fronte alle lusinghe del potere e desideroso di tornare appena possibile alla sua Mount Vernon, e Donald Trump. Assetato di potere, non inquilino ma padrone della Casa Bianca. “La vittoria di Trump sarebbe la fine della visione che Washington aveva della presidenza, e la fine degli Stati Uniti”.

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