X

Domenico Pichini: a Pitigliano la storia arriva in tavola

Domenico Pichini

Diversi secoli fa, a Pitigliano, considerato uno dei borghi più belli d’Italia, in provincia di Grosseto, arroccato a 600 metri di altezza su uno sperone di tufo al confine della Toscana con il Lazio, celebre per le sue caratteristiche case che si affacciano su burroni di tufo pieni di grotte scavate nel tempo, esisteva una fiorente comunità ebraica.

Nel XVI secolo molti ebrei della Toscana e anche del Lazio, per sottrarsi alle persecuzioni dei pontefici si ritirarono lassù, in questo borgo inospitale, lontano da Dio e dagli uomini in piena Maremma, pensando così di poter condurre un’esistenza tranquilla. Erano così tanti che Pigliano fu definita la Piccola Gerusalemme. Ma avevano fatto male i loro calcoli, perché Cosimo II de’ Medici, all’inizio del XVII secolo, volle creare anche qui dei ghetti dove segregare gli ebrei. Le autorità ebbero l’ordine di individuare dove abitavano gli ebrei e passando casa per casa, picchiavano con dei bastoni sulle porte d’ingresso. Era il drammatico segnale che erano stati individuati e che dovevano abbandonare le loro abitazioni per trasferirsi nei ghetti. Il doloroso ricordo di quella triste stagione, un secolo dopo si trasformò in un dolce che con non poca rassegnata ironia ricorda un bastone al quale diedero il nome di Sfratto proprio per ricordare l’umiliazione subita dai Goym (ovvero i non ebrei).

Quel dolce, un involucro molto sottile di pasta non lievitata ripieno di noci tritate, miele, scorza d’arancia, noce moscata, diventato Presidio Slow Food e oggi nell’Arca del Gusto è una presenza costante nel menù di Domenico Pichini, 62 anni, una massa di capelli arruffati sulla testa che lo fanno somigliare a uno di quei briganti maremmani che hanno combattuto fieramente contro il potere dei papi per secoli.

Ma è solo una questione di capelli perché in realtà lo Chef de “Il tufo allegro”, tempio della autentica gastronomia maremmana, è persona molto mansueta, grande appassionato della storia delle tradizioni del suo paese natale e di tutto il territorio circostante. Così appassionato che la sua cucina ha assorbito in pieno la tradizione culinaria Goym reinterpretandola, modernizzandola creando una costante fusione con la più pura cucina maremmana. Un’operazione intellettuale da un lato ma molto passionale dall’altro, di uno chef che ama scoprire il passato con gli occhi del presente.

“La mia- tiene a sottolineare – è una cucina che si rifà alla mia terra e alla sua tradizione, sapori che si devono riconoscere in ogni piatto, armonia di gusto, piacere per chi lo degusta, attenzione nella scelta delle materie prime, che siano sane, sostenibili e soprattutto della zona e tutte cucinate con rispetto per la salute”.

Da dove nasce tanta passione? E’ stata una folgorazione improvvisa. Perché a dire il vero da giovane il suo temperamento esuberante non gli aveva fatto scegliere una strada definita, piuttosto seguiva il suo istinto del momento, segno di grande vitalità. Così che ce n’è voluto del tempo perché approdasse ai fornelli.

Pitigliano

“Ho trascorso tutta la mia gioventù nel paese. Allora era bellissimo, la natura incontaminata ci regalava ogni giorno scoperte ed emozioni. Ero appassionato di musica, suonavo la chitarra, cantavo tutto il giorno, mi aveva insegnato mia madre, mi piacevano le scienze, l’elettronica, volevo fare il liceo e poi l’università, volevo diventare ingegnere elettronico, mi piaceva anche volare, mi sarebbe piaciuto anche essere pilota…

Invece dovetti studiare da geometra, perchè il liceo era troppo lontano ed allora non c’erano i mezzi per raggiungerlo. Ma dopo il diploma dovetti rinunciare anche alla facoltà di ingegneria, troppo costosa. Allora mi iscrissi ad architettura, mi piaceva molto anche quella, ma dopo i primi esami, fra l’altro molto ben riusciti, esposti ad una mostra e pubblicati su una rivista, mio padre si ammalò seriamente e dovetti rinunciare anche all’università”.

Di tutti questi sogni che spaziavano da un campo all’altro però non se ne poté realizzare alcuno perché fatto il militare Pichini dovette iniziare a lavorare.

Fece un po’ di tutto, geometra e muratore, stagionale alla cantina sociale del paese e alla Comunità Montana.

Ma ecco che in questo bailamme di mille entusiasmi che si accendono e si raffreddano repentinamente si accorge di avere un pensiero fisso, aprire un’osteria, farne un luogo di incontro fra amici, fra conoscenti da far diventare amici, fra ospiti occasionali con i quali allacciare rapporti di simpatia e convivialità duraturi nel tempo. Un’osteria come una grande cucina di famiglia aperta a tutti.

Pichini comincia a cucinare per passione, ricordandosi di quando da bambina aiutava la mamma a preparare il ripieno dei tortelli (“lo faceva per farmi stare buono”). Quando si riunisce con gli amici si propone di cucinare per tutti, poi si compiace di constatare che tutti glielo richiedono. Gli piace anche il mondo del vino “l’avevo anche prodotto nella cantina di mio nonno, il resto venne da sé… “.

E’ un autodidatta le ricette le studia e le sente dentro. Non passa per la scuola alberghiera, e qui esce fuori il suo carattere un po’ ribelle. Si inscrive invece a un corso di cucina presso la scuola di Giuseppe Daddio a Maddaloni. Daddio, direttore della scuola “Dolce & salato”, importanti esperienze in Svizzera, al Badrutis Palace Hotel di St. Moritz, poi alla cucina dell’Hotel Eden di Roma allora insignito di una stella Michelin quindi collaboratore di Antonello Colonna, all’Osteria Labico, fregiato da una stella Michelin, gli fa capire che «La cucina è un’arte, non improvvisazione: è un’arte che non accetta scorciatoie e superficialità, ma è fatta soltanto di basi, principi, tecnica e filosofia di pensiero».

Pichini stabiliti i principi base di una cucina di qualità raffina quindi i suoi strumenti da Valeria Piccini, due stelle Michelin, del ristorante Da Caino a Montemerano, da Luciano Zazzeri, chef stellato del ristorante La Pineta di Marina di Bibbona, in provincia di Livorno, morto qualche anno fa e da Gennaro Esposito, il grande maestro di Vico Equense.

“Sono tutti e tre i miei chef di riferimento, amo la loro creatività che si manifesta anche con l’utilizzo delle materie prime più semplici, e la loro tecnica e precisione”.

Ha imparato sul campo tecnica e precisione, e soprattutto l’importanza della filosofia di pensiero. E proprio questo principio lo spinge ad approfondire la sua conoscenza della cucina Goym con la sua storia millenaria, una storia che lo seduce e lo attrae.

La convivenza secolare della comunità pitiglianese con quella ebraica ha lasciato tracce importanti a tavola, così come a Roma buona parte della cucina più popolare e genuina è eredità della cucina ebraica come i carciofi alla giudia, i tortini di alici e indivia, i fiori di zucca ripieni, i filetti di baccalà, il quinto quarto della macellazione. C’è in questa cucina quell’anima di popolanità sia di gusti che di materie prime che ritrovi alla base della cucina maremmana. Così tutto si trasforma in una ricerca del tempo perduto che però Pichini eleva a livello di alta qualità.

Non a caso il primo piatto cucinato da cuoco sono stati gli ‘gnudi, un piatto dimenticato, tipico della tradizione contadina toscana che deve il suo nome al fatto che l’impasto viene lasciato a nudo, non avvolto dalla sfoglia come accade per esempio con i ravioli.

“Un piatto che piacque tantissimo, divenne il simbolo del mio ristorante e non l’ho più tolto dalla carta, Piero Pelù ne mangiava tantissimi, quando veniva a trovarmi, andava matto di quelli serviti con il tartufo”.

Dall’incontro fra la maremma e la cucina Goym sono nati molti altri piatti che Pichini ha riportato a nuova vita come i tortelli di ricotta ed erbe ricoperti di zucchero e cannella, la pasta ai ceci, il buglione d’agnello e lo sfratto di cui si è detto prima.

“Gli ebrei pitiglianesi – ha dichiarato lo Chef in una recente intervista – ci hanno insegnato a usare le spezie, come la cannella. I tortelli, ad esempio, li mangiavano con formaggio (probabilmente pecorino…) e cannella. I piatti della cucina Goym che proponiamo al Tufo Allegro corrispondono alle ricette della tradizione, che ho riscoperto in un libro scritto da una signora ebrea di origini pitiglianesi, che vive negli Stati Uniti. Ho tradotto e interpretato alcune di queste ricette per recuperare un patrimonio di gusto e di sapori che ritengo straordinario”.

Se dovessimo scegliere tre piatti rappresentativi del “Tufo allegro” metteremmo al primo posto il buglione di agnello, che è il piatto più tipico di Pitigliano, che Pichini sa trasformare in qualcosa di estremamente delicato senza rinunciare al sapore vero della tradizione, e poi tutte le paste fresche e ripiene che lo chef realizza con farine antiche, tutte rigorosamente a mano, alcune stese ancora con il mattarello come i tortelli maremmani, “perchè – dice – è un’arte che non si deve mai perdere” ma non va dimenticato anche il baccalà che lo chef propone in differenti modalità, fritto, in umido e con il pomodoro, che ne esaltano il sapore e il gusto.

Se gli chiedete infine che cosa è cambiato per lui con il dopo covid, da tenace e propositivo com’è, vi risponderà: dopo il corona virus sono lo stesso cuoco pero molto più preoccupato… Come a dire che la storia gli ha insegnato che si va avanti comunque ma ciò richiede fatica.

Related Post
Categories: Food
Tags: ChefToscana