L’indice di cambio del dollaro statunitense aveva iniziato il 2017 a 103,2, dopo mesi di rafforzamento legati alle preoccupazioni per le conseguenze delle elezioni presidenziali francesi sulla tenuta dell’Eurozona, e per gli effetti dell’elezione di Donald Trump sulle aspettative degli operatori sulla crescita. Da allora, però, la discesa è stata pressoché ininterrotta: l’indice di cambio è calato a settembre fino a 91,3, quindi è risalito fino a novembre, poi è tornato a scendere fino a minimi di 88,6 all’inizio di febbraio.
La prima fase di discesa, quella primaverile ed estiva, è collegata al netto miglioramento della fiducia nell’euro che è scaturito dall’ampia vittoria di Macron alle elezioni francesi. La svolta è stata così netta che in seguito gli investitori si sono dimostrati del tutto insensibili sia all’ingresso nel governo austriaco della destra euroscettica, sia all’inizio di una difficile campagna elettorale in Italia, campagna da cui potrebbe scaturire un’ulteriore erosione del consenso per i partiti moderati.
L’indebolimento del dollaro è collegato a un eccezionale aumento delle posizioni speculative corte sui derivati. Il fenomeno ha riguardato i cambi contro euro, yen e sterlina. I livelli raggiunti sono inusuali, e suggeriscono quanto meno la possibilità di una fase correttiva. Tuttavia, anche la presenza di alcune sporadiche eccezioni, in cui il ribilanciamento (almeno inizialmente) è avvenuto senza indebolimento dell’euro.
Un altro elemento è il legame fra valore del dollaro e avversione al rischio. Livelli più alti del VIX, per esempio, sono associati a un dollaro più forte. Perciò, la correzione degli indici azionari mondiali dovrebbe essere accompagnata anche da una correzione del dollaro. Ma che dire dei fattori fondamentali che dovrebbero influire sul cambio?
IL PUZZLE DELL’INCOERENZA CON IL MOVIMENTO DEI TASSI
Oltre il brevissimo periodo, il cambio euro-dollaro tende a muoversi nella stessa direzione del differenziale fra i tassi a 2 anni fra Stati Uniti ed Eurozona. Dal 2007 la relazione è impressionante, e pochi sono gli episodi duraturi di sganciamento. I due più rilevanti si sono verificati nel 2009 e nel 2014. Nel 2009, l’economia mondiale era ancora nel mezzo del caos legato alla Grande Recessione e il divario è stato assorbito nel 2010 con una correzione del cambio verso valori più coerenti con l’andamento dei tassi.
Anche nel 2014, il riaggancio si è verificato con un veloce apprezzamento del dollaro, mentre i differenziali continuavano il proprio ordinato movimento collegato alle dinamiche delle politiche monetarie. Al riaggancio è seguito poi un overshooting, con un cambio euro/dollaro transitoriamente troppo debole. Oggi stiamo vivendo il terzo episodio di decoupling del decennio. Questo schema di analisi suggerirebbe che il cambio euro/dollaro dovrebbe scendere. Il fair value calcolato sulla base della relazione prevalente dal 2008 si collocherebbe intorno a 1,10 dollari per euro.
Ci sono tre considerazioni che devono però indurci a prendere questa conclusione con un po’ di prudenza:
1) rispetto a quello del 2014, la dinamica relativa delle politiche monetarie potrebbe essere un po’ meno favorevole a un rimbalzo del dollaro: allora la Bce stava preparando l’avvio dell’App, mentre ora i mercati cominciano a scontare la chiusura del programma di stimolo e il ritorno dei tassi di interesse europei a livelli positivi dopo la metà del 2019. Perciò i mercati potrebbero avere una percezione più attenuata della divergenza della politica monetaria rispetto al 2014;
2) fra il 2000 e il 2006 la relazione era stata decisamente più debole, con lunghi periodi di totale decorrelazione. Inoltre, fra il 2003 e il 2005, il divario si chiuse con un movimento convergente di cambio e differenziale. Dunque, in quell’occasione quest’ultimo offrì un’indicazione sbagliata delle tendenze. In effetti, in quel periodo gli Stati Uniti erano in piena bolla del credito e il deficit delle partite correnti arrivò a superare il 6% del PIL, in alcuni trimestri. La relazione stimata includendo anche il periodo 1999-2007 produce un fair value di 1,25, sostanzialmente in linea con le valutazioni correnti.
3) Un terzo problema è costituito dall’impatto dei programmi di acquisto Fed e BCE. Entrambi risultano significativi come determinanti del tasso di cambio, togliendo significatività al differenziale di tasso. Considerando l’impatto dell’APP, il fair value è di poco più basso (1,23), e ancora in linea con i livelli correnti. Tuttavia, è previsto salire nettamente prima con la riduzione, e poi con la chiusura dell’APP.
PARTITE CORRENTI, COMPETITIVITÀ, POLITICHE COMMERCIALI E CAMBIO
Come detto, fra il 2003 e il 2005 l’esplosione del disavanzo di parte corrente degli Stati Uniti aveva segnalato che l’espansione stava assumendo un carattere di insostenibilità, e aveva contribuito a rompere la correlazione con il differenziale dei tassi. Oggi il saldo delle partite correnti degli Stati Uniti registra un deficit di circa il 2,4% del PIL, piuttosto stabile. Una chiusura di tale deficit mediante il cambio richiederebbe forse un deprezzamento di circa il 10%. Tuttavia, non c’è nessun motivo per ritenere tale disavanzo insostenibile, e quindi per pensare che richieda un deprezzamento del cambio. Il ruolo del saldo delle partite correnti nello spiegare il cambio sembra poco significativo in questa fase, anche se lo può diventare a fronte di squilibri più ampi. La dinamica relativa dei prezzi, invece, è correlata con l’andamento del cambio euro/dollaro: un’inflazione europea relativamente più forte risulta associata a un euro più forte. Tuttavia, è improbabile che questo aspetto possa giustificare i movimenti recenti.
C’è però un altro elemento che può avere influito sull’atteggiamento degli investitori nei confronti del dollaro: la svolta mercantilista della politica economica americana che si è verificata con l’insediamento dell’amministrazione Trump. Poco prima di assumere la presidenza, Trump aveva giudicato il dollaro “troppo forte”. Il ministro del tesoro degli Stati Uniti, Mnuchin, ha dichiarato recentemente che “ovviamente un dollaro debole è positivo per noi, per quanto concerne i riflessi sul commercio e sulle opportunità”. Trump ha corretto il tiro sostenendo che vuole vedere un dollaro sempre più forte, ma la percezione che l’amministrazione Trump gradisca un dollaro debole a integrazione delle sue politiche mercantiliste si è ormai radicata.
La situazione, però, è più complessa di quanto appaia. Ad esempio, la riforma tributaria potrebbe essere considerata positiva per il dollaro, nella misura in cui favorisce il rimpatrio dei profitti delle multinazionali americane, stimola gli investimenti diretti negli Stati Uniti e agevola la produzione domestica su quella estera. Tuttavia, anche mettendo da parte i dubbi sull’efficacia della riforma nel generare un rimpatrio dei profitti, una conseguenza opposta potrebbe aversi se il peggioramento del deficit federale spostasse il bilancio di risparmio e investimenti verso un maggiore deficit. Da questo punto di vista, potrebbe richiedere un dollaro più debole.
RISERVE UFFICIALI E DOLLARO
Parzialmente collegato alla svolta della politica americana avvenuta con l’elezione di Trump è un’altra teoria, che collega la debolezza del dollaro a cambiamenti nella composizione valutaria delle riserve ufficiali. La ricomposizione potrebbe essere motivata dalla volontà di mettere le attività finanziarie del Paese al riparo dal rischio di sanzioni, o più in generale dalla diffidenza nei confronti della politica estera ed economica degli Stati Uniti. Tuttavia, è molto difficile per paesi che devono gestire grandi riserve valutarie modificarne significativamente la composizione. Tendenzialmente, in una fase di accumulo di riserve dovranno comunque essere compratori anche di USTs. Ciò è particolarmente vero per la Cina, che deve gestire oltre $3000 miliardi di riserve valutarie.
I titoli di Stato americani detenuti da Enti ufficiali sono tornati a crescere dopo il calo connesso alla contrazione delle riserve valutarie della Cina avvenuto fra 2015 e 2016, ma restano più bassi rispetto al precedente picco. I dati del FMI sulle riserve mostrano effettivamente un calo della quota del dollaro tra fine 2016 e il 2017Q3 di 2 punti percentuali, dal 65,3 al 63,5%, mentre la quota dell’euro è salita da 19,1 a 20,0% e quella dello yen da 4,0 a 4,5%. Però nel corso dell’ultimo anno la quota di riserve ufficiali allocata dal punto di vista valutario è salita dal 78,6% all’85,4% e quindi le variazioni potrebbero riflettere più la modifica del campione che un cambiamento effettivo nella composizione valutaria.
Inoltre, il calo può riflettere anche il mero deprezzamento del dollaro sui mercati valutari: nello stesso periodo, il dollaro si è deprezzato del 6% sugli indici di cambio effettivo, sicché il calo del valore delle riserve in dollari potrebbe essere spiegato per metà da un effetto valorizzazione. Perciò, anche se non è irragionevole pensare che si stia pensando un graduale spostamento verso divise di riserva diverse dal dollaro, è difficile appurare quanto la ricomposizione valutaria possa aver inciso sulla recente debolezza del dollaro. Forse, visto l’andamento delle posizioni speculative contro il dollaro e l’importanza degli stimoli quantitativi nell’influenzare i cambi, non è neppure necessario chiamarla in causa.
MA IL MOVIMENTO DEL DOLLARO È COSÌ ECCEZIONALE?
Per concludere, conviene gettare uno sguardo all’andamento di lungo termine dei cambi medi ponderati per i flussi commerciali. Da questo punto di vista, il movimento del 2017 perde molta della sua eccezionalità. Il dollaro sta tornando verso la sua media storica, correggendo una fase di sopravvalutazione che ha caratterizzato il periodo 2015-16. Una completa normalizzazione richiederebbe un deprezzamento ulteriore di circa il 5%. Forse Trump non aveva tutti i torti a giudicare “troppo forte” il dollaro.
L’euro resta per ora nell’ambito della norma, ma la deviazione dalla media di lungo periodo comincia ad avvicinarsi a una deviazione standard. Questa situazione non è comune: dal 2000, soltanto in due casi il cambio effettivo dell’euro si è allontanato dalla media di più di una deviazione standard. Nel 2014, la deviazione risultò effimera. Dieci anni fa, però, la deviazione si protrasse per oltre due anni prima di essere riassorbita.
Da una parte, vi sono altri elementi che suggeriscono come matura una correzione che scarichi l’eccesso di pressione speculativa, e che fanno altresì ritenere l’euro su livelli prossimi alla sopravvalutazione.
Però altre considerazioni suggeriscono che, il cambio euro/dollaro potrebbe oggi essere su livelli più adeguati rispetto a un anno fa, considerando la maggior focalizzazione sui saldi commerciali che è avvenuta dopo l’insediamento dell’amministrazione Trump. Vi sono motivi per attendersi un’ulteriore debolezza del dollaro malgrado l’indicazione contraria dei differenziali di tasso. La chiusura dell’APP, in particolare, rappresenta un potenziale rischio per l’andamento del cambio, in quanto il lancio dello stesso sembra spiegare gran parte del calo del cambio euro/dollaro a inizio 2015 e la sua graduale riduzione spiega in parte la ripresa dello stesso rapporto di cambio nel 2017 e nel 2018.
°°° L’autore è il responsabile della ricerca macroeconomica e del mercato obbligazionario di Intesa Sanpaolo