Alla fine del XV secolo l’Europa ha pienamente superato la Morte Nera e la crisi demografica del secolo precedente. L’economia è in piena espansione anche se la turbolenza politica è intensa e incessante. Il commercio si svolge su due direttrici. Lungo l’asse nord-sud la filiera produttiva parte dalle lane e dai tessuti inglesi che vengono poi lavorati nelle Fiandre, in Borgogna e nell’Italia settentrionale. Questo asse è cementato dalla parentela dinastica tra la monarchia inglese e i duchi di Borgogna. L’asse est-ovest, che va da Anversa alla Russia, è invece gestito dalla Lega Anseatica, che fa politicamente riferimento all’Impero e si concentra su metalli e legname.
Nel 1496 l’asse nord-sud dà vita all’Intercursus Magnus, un’area di scambio regolato e quasi libero (che include Venezia e Firenze) alla quale aderisce successivamente anche la Lega Anseatica. Come si può immaginare l’accordo è estremamente complesso e, negli anni, subisce continue modifiche legate all’evoluzione del quadro politico e militare. Nel 1506 viene completamente rinegoziato e i nuovi rapporti di forza lo rendono molto più favorevole agli interessi inglesi (tanto che gli olandesi lo ribattezzano polemicamente Intercursus Malus) salvo ritornare negli anni seguenti alla configurazione di origine.
L’Intercursus è un’area di scambio relativamente libero intorno alla quale vive e talvolta prospera un’area ancora più libera, quella del contrabbando e della pirateria. La dissoluzione del ducato borgognone e il controllo spagnolo sulle Fiandre metteranno comunque fine all’affascinante esperienza dell’Intercursus. La globalizzazione si proietterà su scala extraeuropea, ma l’Europa, al suo interno, tornerà ad alzare barriere nazionali e regionali alla circolazione delle merci.
L’esperienza storica dell’Intercursus induce a qualche riflessione. La prima è che è la crescita a generare globalizzazione più di quanto non sia la globalizzazione a generare la crescita. Il trattato viene infatti firmato (da stati che vorrebbero combattersi) su pressione dei produttori di lane inglesi e dei trasformatori continentali, entrambi in cerca di sbocchi commerciali e materie prime dopo che l’aumento della produttività ha fatto crescere l’offerta, mentre l’aumento del benessere generale ha stimolato la domanda.
La seconda riflessione, come dimostra la parentesi dell’Intercursus Malus, è che gli accordi commerciali, anche quando ispirati alla promozione degli scambi, riflettono con la precisione di un sismografo l’evoluzione dei rapporti di forza tra i contraenti e vengono quindi costantemente rinegoziati o applicati con più o meno correttezza. La gestione imparziale del contenzioso commerciale da parte delle corti di giustizia fu del resto uno dei temi più spinosi dell’esperienza dell’Intercursus.
Il programma economico di Trump è stato accolto bene dai mercati per le parti che riguardano fisco, deregulation e infrastrutture. Resta però ancora un’ombra sul protezionismo. Si teme l’innalzamento di barriere doganali anche molto elevate. In realtà, analizzando le posizioni degli economisti di area trumpiana, lo sforzo non si concentrerà sui dazi, che resteranno sullo sfondo solo come minaccia, ma su due altre direttrici.
La prima è la lotta agli organismi multilaterali e alle loro tecnocrazie autoreferenziali. È una questione di sovranità, a ben vedere, in cui è presente la tradizionale avversione repubblicana a organismi come l’Onu e la Corte Internazionale di Giustizia. Organismi, si dice, non eletti democraticamente e sempre più intrusivi. I grandi trattati regionali o globali saranno quindi sostituiti, tendenzialmente, da accordi bilaterali.
La seconda direttrice è l’aggiornamento dei trattati bilaterali sulla base della nuova volontà politica. L’America, tradizionalmente, ha spesso concesso molto ai suoi partner commerciali contando sulla forza della sua economia e sul controllo del dollaro come rimedio eventuale a situazioni di eccessivo squilibrio. Il rapporto con la Cina, ad esempio, è palesemente sbilanciato a sfavore dell’America. Per questo ci sembra per ora fuor di luogo il timore di una deglobalizzazione a somma negativa per tutti. La somma sarà zero, ma lo zero sarà il risultato di un segno positivo per l’America e negativo per il resto del mondo. Il dollaro forte bilancerà parzialmente le cose, restituendo competitività al resto del mondo. Ma dove potrà arrivare il dollaro?
Se si guardano i fondamentali il dollaro non dovrebbe apprezzarsi. L’America è infatti in disavanzo rispetto al resto del mondo. Prima della vittoria inaspettata di Trump, del resto, molte case davano il cambio con l’euro per fine 2017 tra 1.15 e 1.20. L’Eurozona, in particolare, è in surplus strutturale delle partite correnti ed è solo per i rischi politici ormai semipermanenti e grazie alla politica monetaria ultraespansiva che l’euro riesce a restare sottovalutato. Non parliamo poi del surplus cinese, che un renminbi in caduta accelerata rafforzerà ulteriormente. La forza del dollaro appare dunque dovuta al rinnovato dinamismo politico della nuova amministrazione ma deve ancora di più al differenziale dei tassi.
Ed è qui che la Fed, silenziosamente uscita di scena negli ultimi mesi in attesa di riconsegnare alla politica fiscale il posto di comando, rientra pienamente in gioco. Dipenderà infatti dal ritmo dei rialzi dei tassi americani se il dollaro andrà in overshooting o no. E qui le cose si fanno davvero complicate. Il punto di partenza è una Fed ultracolomba e un Trump ultrafalco (più i suoi economisti di lui, a dire il vero). La Fed, insieme alla Corte Suprema, è però anche l’unica area di potere rimasta ai democratici a Washington. Entro 12-18 mesi Fed e Corte Suprema saranno trumpificate, ma nel frattempo potrebbero fare molto, volendo, per indebolire Trump e il suo partito.
La Corte ha ancora i voti per rendere incostituzionale la pratica di disegnare i distretti elettorali in modo da favorire chi è al governo (una pratica sempre adottata da tutti ma che in questo momento favorisce i repubblicani) con l’effetto, fra due anni, di sfilare il Congresso a Trump e restituirlo ai democratici.
La Fed, dal canto suo, potrebbe iniziare ad alzare i tassi più aggressivamente dei due rialzi (oltre a quello di dicembre) già scontati dal mercato e più che sufficienti a mantenere tutto in equilibrio. Trump sarebbe del resto in imbarazzo ad accusare la Fed di troppa severità quando fin qui l’ha accusata di lassismo. Tre o più rialzi porterebbero però il dollaro a livelli troppo forti e farebbero abortire la riaccelerazione dell’economia, uno dei pilastri del programma trumpiano. Se però la Fed manterrà la sua promessa (fatta quando la Clinton appariva vincitrice certa) di andare ad esplorare il limite della disoccupazione non inflazionistica, se cioè vorrà mantenere l’economia calda (come ebbe a dire la Yellen prima delle elezioni) i rialzi saranno solo due e bond e dollaro si fermeranno.
Chi non ha doti di preveggenza farà quindi bene a lasciare spazio a due scenari, il primo quello dell’overshooting di dollaro e bond e il secondo di bond e dollaro che, dopo avere dato ancora qualche settimana a chi era dalla parte sbagliata per correggere dolorosamente le posizioni, si fermeranno su livelli non troppo lontani dagli attuali. In pratica ci sembra ancora presto per comprare Treasuries e vendere dollari. La stessa logica vale per le borse. Molti portafogli sono arrivati leggeri di azionario alle elezioni e sono rimasti spiazzati dal rialzo successivo proprio mentre si avvicina la fine dell’anno. Il referendum italiano sarà l’ultima opportunità per entrare, ma proprio perché molti la attendono il ribasso, se ci sarà, sarà probabilmente breve e superficiale.