Imprese italiane all’estero tra esterovestizione, che spesso sfocia nel reato di elusione fiscale, e legittima delocalizzazione. Se ne è discusso a Bologna in occasione del convegno organizzato in Italia da Synergia Consulting Group, e che ha visto la partecipazione anche di Baker Tilly Revisa, per presentare la controllata Baker Tilly Italy Tax: “Un’alleanza professionale”, la definisce l’AD Pietro Mastrapasqua, dedicata proprio alla fiscalità internazionale e a tutti i temi – spesso spinosi – che riguardano l’internazionalizzazione delle imprese, come il transfer pricing e tutte quelle situazioni che spesso sfiorano l’evasione e soprattutto l’elusione fiscale. “E’ stato organizzato questo convegno per far capire le potenzialità che abbiamo insieme – ha commentato Davide Trinchero, partner di Baker Tilly Revisa – anche in considerazione della recente normativa dettata dalla legge fallimentare che alza i livelli di obbligo della Revisione per le società in Italia”.
Il tema di maggior interesse durante l’incontro è stato però l’esterovestizione, che non è altro che la fittizia localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società che, al contrario, ha di fatto la sua attività in Italia: una fattispecie che si presta a molte sfumature, anche se di recente l’orientamento giudiziario ha segnato una svolta rispetto al passato. Il caso di scuola sui taccuini di tutti i commercialisti italiani è quello di Dolce&Gabbana, azienda italiana uscita indenne nel giro di pochi anni sia dal processo penale per elusione ma soprattutto, poche settimane fa, dal procedimento presso il giudice tributario, “dopo che la Cassazione ha spiegato lo scorso dicembre – ha ribadito Massimo Boidi, presidente di Baker Tilly Italy Tax – che la società controllata basata in Lussemburgo non è esterovestita in quanto non si tratta di una costruzione di puro artificio”. La controllata in questione è la GADO S.a.r.l., società effettivamente con sede nel Principato di Lussemburgo, alla quale spetta il compito di incassare le royalties dei marchi Dolce&Gabbana.
L’accusa sosteneva che tale attività fosse in realtà gestita a Milano, ma il giudice ha dato ragione ai due stilisti. “E’ una decisione coerente – ha commentato Boidi -: per incassare royalties è sufficiente una struttura limitata, ma questo non vuol dire che fosse fittizia. Il giudice ha ribadito il diritto di un’azienda a stabilirsi dove vuole, e il trasferimento non va censurato per il semplice fatto che viene scelto un regime fiscale più favorevole”. L’abuso di questo diritto, peraltro previsto all’interno dell’Europa dagli stessi regolamenti comunitari, avviene dunque solo e soltanto in caso di “attività puramente artificiosa”. Cioè se l’azienda trasferita all’estero è finta, non svolge alcuna attività. In tutti gli altri casi, l’operazione è legittima ed esclude anche l’omessa dichiarazione e l’eventuale reato di elusione, “in quanto non si mette un vestito estero a un reddito imponibile italiano, ma si tratta di un reddito che si produce in un altro Stato, dove vengono pagate delle imposte, minori o maggiori che siano”.
L’orientamento espresso dalla Cassazione apre dunque a nuovi scenari, più permissivi per le imprese, un po’ meno per le entrate erariali, in un Paese come l’Italia che ha già una pressione fiscale mediamente alta (42%, contro il 46% però della Francia, ad esempio) e che soffre di un’evasione fiscale più diffusa che altrove. Anche di questo si è parlato al raduno di Baker Tilly a Bologna: “In realtà – sostiene Boidi – l’Italia non ha una pressione così più elevata rispetto ad altri Paesi. Negli ultimi anni la forbice è diminuita, grazie ad alcune riforme come quella sull’Ires. Il problema italiano è l’Effective Tax Rate, ovvero la determinazione della base imponibile, che è più ampia rispetto ad altrove”. In altre parole, si pagano tasse su più cose e si “scarica” meno: così la pressione fiscale effettiva può raggiungere il 50-60%, invogliando le imprese a trasferire parte della loro attività all’estero. Magari in Paesi che, all’interno dello stesso contesto europeo, offrono regimi fiscali molto più vantaggiosi: “Più che uniformare le aliquote, una soluzione sarebbe già quella di uniformare le regole sulle basi imponibili”, sostiene Boidi.
L’Italia ne avrebbe bisogno non solo per trattenere le imprese e per contenere un’eventuale “diaspora” dopo una sentenza epocale come quella su D&G, ma anche per attrarre investimenti esteri. Un’opportunità che, soprattutto in tempi di Brexit, il Paese non può non cogliere. “L’Italia è una delle maggiori economie mondiali – ha commentato Ted Verkade, CEO di Baker Tilly International, organizzazione che raduna 35.000 professionisti in tutto il mondo (la quinta a livello globale per fatturato, con 3,6 miliardi di ricavi) – ma la sua economia è composta soprattutto da imprese di piccole e medie dimensioni, che hanno bisogno di essere aiutate nel processo di crescita anche internazionale. Brexit non è una cosa buona, ma può essere un’occasione per le società che vogliono ri-localizzarsi in altri Paesi europei: in pole position ci sono Francia, Germania, Olanda, ma anche l’Italia può fare la sua parte”. Magari iniziando a creare un ecosistema più invitante anche per i “campioni nazionali” come Dolce&Gabbana, dopo che la Cassazione ha stabilito che la loro parziale “fuga” dall’Italia non è affatto illegittima.