Il disastro climatico ci riserva nuovi messaggi di terrore. L’Occidente industrializzato in progresso nella lotta alle emissioni mentre le economie emergenti possono al massimo arginare l’aumento a casa loro? Niente affatto. Le cose vanno ancor peggio. Il mondo sviluppato rischia di rallentare la marcia, a cominciare da casa nostra. Quello in via di sviluppo accelera immancabilmente il disastro, non solo per responsabilità dei due mastodonti Cina e India ma anche per la corsa degli altri gregari dello sviluppo mondiale: ad esempio i paesi emergenti del sud-est asiatico. Nel computo quotidiano degli allarmi lanciati dagli esperti eccone un paio, freschi di giornata o quasi, che combinati tra loro faranno discutere.
Il primo inquietante segnale viene proprio da casa nostra. Sotto tiro c’è il Pniec (Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima) che anche l’ultimo governo ha confermato per tener fede agli impegni con la Ue di ridurre i nostri gas serra del 40% entro il 2030. Obiettivo insufficiente, sostengono peraltro gli ambientalisti, che chiedono di portare il target ad almeno il 50%. Ma anche raggiungere la meta prefissata sarà una missione ardua. Ce lo dicono Edoardo Bosco e Simone Franzò, ricercatori dell’Energy&Strategy Group del Politecnico di Milano sull’onda di un rapporto presentato a Key Energy, la grande fiera dell’Energia “verde” di Rimini. La corsa italiana alle rinnovabili – spiegano i due ricercatori in un articolo pubblicato sul portale specializzato QualEnergia – sembra aver ripreso vigore, ma “il tasso di crescita è ancora insufficiente per poter adempiere agli obiettivi”.
FRENO TIRATO
Nei prossimi cinque anni la crescita del fotovoltaico rispetterà i programmi e anzi potrà addirittura superarli, ma nel quinquennio successivo è previsto un forte rallentamento. Tant’è che senza nuovi drastici impulsi alle iniziative industriali e alle relative autorizzazioni l’energia dal sole si fermerà “nel migliore dei casi a 50 terawattora di produzione, ben 25 TWh in meno di quanto ipotizzato al 2030 dal Pniec”. Decisamente male per l’energia dal vento “con una crescita iniziale molto lenta, che comporta un ritardo di circa 5 TWh già nel 2025” con almeno 6 TWh che rischiano di mancare all’appello al 2030 rispetto agli impegni, con un deficit di circa il 40% delle nuove installazioni rispetto all’obiettivo fissato.
Nulla da fare? Non è detto. Gli stessi operatori del settore – rimarcano Bosco e Franzò – sono convinti che l’Italia abbia le potenzialità per installare la potenza necessaria a raggiungere gli obiettivi. Servono però “provvedimenti normativi regolatori di accompagnamento, che siano coerenti rispetto agli obiettivi e che affrontino le due principali criticità che caratterizzano lo scenario inerziale della sostenibilità economica degli investimenti, tenendo conto anche la rischiosità legata all’andamento dei prezzi di mercato dell’energia, e la disponibilità di suolo necessarie a garantire l’installazione della potenza prevista dal Pniec”.
VENTO CONTRARIO
Sul versante dei costi e della redditività degli impianti i segnali sono incoraggianti per il fotovoltaico, meno per l’eolico, che rischia di vedersi spiazzato proprio dalla crescita competitività dell’energia solare grazie alle nuove tecnologie ed in particolare all’aumento di efficienza dei pannelli e dalle economie di scala delle nuove installazioni. Il che comporterà una spinta alla riduzione dei prezzi medi dell’energia sul mercato. Buone opportunità per l’eolico potrebbero semmai arrivare dal repowering, con operazioni pesanti di manutenzione-sostituzione degli impianti già esistenti senza chiedere nuove complicate e onerose autorizzazioni sui territori. Il messaggio per la nostra politica è chiaro: la semplificazione degli adempimenti normativi è un obbligo, una nuova politica mirata di incentivi è una necessità (regole europee sulla concorrenza permettendo).
Ma ecco il secondo cattivo segnale sul fronte ambientale. Viene appunto dal sud-est asiatico, avviato verso un raddoppio delle sue emissioni di gas serra, che come ormai tutti sappiamo opprimono tutto il pianeta indipendentemente da dove vengono prodotte. L’altolà viene da un rapporto della IEA, l’agenzia internazionale per l’energia, che mette nel mirino la prevista crescita dei combustibili fossili in Asia, in particolare nei paesi del sud-est, con tutte le relative conseguenze ambientali.
A TUTTO CARBONE
Nel suo nuovo rapporto “Southeast Asia Energy Outlook 2019” la IEA sostiene che senza un drastico potenziamento degli investimenti in fonti rinnovabili, efficienza energetica e ambientalizzazione del sistema dei trasporti, l’area del sud-est asiatico (che comprende paesi già abbastanza industrializzati come Thailandia e Malesia ma anche paesi che vogliono crescere alla svelta, come Indonesia, Vietnam e Cambogia) coprirà prevalentemente con le fonti fossili una crescita del 60% della domanda energetica al 2040. E le emissioni potrebbero screscere in proporzione ancora di più, visto che la quota preponderante tra le nuove fonti fossili rischia di andare al carbone, il vero spauracchio del declino ambientale del pianeta, che potrebbe passare dal 20 al 50% nel contributo complessivo delle fonti fossili. Vero è che oggi i paesi dell’area contribuiscono globalmente a meno dei 5% delle emissioni mondiali di gas serra (in testa l’Indonesia con l’1,4%, seguita dalla Thailandia con l’1% e dalla Malesia con lo 0,7%) ma al 2040, con il trend tendenziale, la quota potrebbe arrivare all’8% se non addirittura al 10%, con un freno non indifferente al contributo delle politiche di contenimento dei paesi più virtuosi, che già hanno non pochi problemi a rispettare i loro obiettivi.