“La Difesa europea è un elemento decisivo, ma non da solo. Il processo deve essere politico e deve riguardare tutta la governance dell’Unione”. Biagio De Giovanni, filosofo e politico napoletano fra i più acuti del nostro Paese, ha vissuto momenti importanti ed esaltanti della vita dell’Unione, essendo stato deputato europeo per dieci anni e in tempi cruciali, dal 1989 al 1999, quando il mondo comunista implodeva sotto il Muro di Berlino e, venendo giù l’impalcatura principale, la Russia sovietica, trascinava mezza Europa nella polvere. E anche nel sangue in alcuni casi, come in Yugoslavia, dove si erano succedute – dal 1991 al 2001 – cinque guerre interetniche (Slovena, Croata, Bosniaca, Kosovara, Macedone).
Conversando con FIRSTonline, De Giovanni ci tiene a sostenere che è d’accordo con quanti ritengono che mai come in questo momento, travolti da due guerre che rischiano di minare l’impalcatura democratica stessa dell’Unione (e dell’Occidente), quella della Russia contro l’Ucraina e quella di Gaza, sia necessario che l’Europa si doti di una propria Difesa militare. Tuttavia – nello stesso tempo – egli ritiene che non sia questione di eserciti, ma di politica.
Prof De Giovanni, il quadro che esce dalle analisi di numerosi centri studi, a cominciare dal Cesue (Centro studi, formazione, comunicazione e progettazione sull’Unione Europea), fotografa una situazione assurda: l’Europa ha costi militari enormi per avere una non-Difesa. I 27 Stati membri insieme, infatti, hanno la terza spesa militare mondiale (268miliardi di dollari), dopo Stati Uniti (811 miliardi di dollari) e Cina (298 miliardi di dollari), ma non sono in grado di difendersi da soli. Concretamente l’Unione spende per la Difesa l’1,5% del Pil (Dati European Defence Agency), cioè una volta e mezzo l’intero bilancio comunitario, ma questa spesa va quasi del tutto sprecata. Questo perché in Europa ci sono 27 eserciti, uno per Stato, e un numero eccessivo di sistemi d’arma. Abbiamo molti più militari degli Usa, ma sono meno addestrati e meno equipaggiati. Mentre spediamo per il personale (stipendi) più di quanto facciamo per la ricerca, l’innovazione o gli armamenti, l’opposto di quello che accade in America. Stanziamo anche fondi importanti per acquistare mezzi, ma poi non ne garantiamo l’utilizzo: ad esempio acquistiamo aerei, ma il numero di ore in cui i nostri piloti possono utilizzarli è molto più basso di quelli americani. Insomma prof, se non ora quando?
“La Difesa europea è un elemento decisivo, concordo pienamente, ma non da solo. Il processo deve essere politico e deve riguardare tutta la governance dell’Unione. Creare una Difesa europea richiede che l’Unione abbia una vera politica estera e di sicurezza perché – come è chiaro a tutti – avere uno strumento militare europeo e non poterlo mai usare a causa di un sistema decisionale che assegna il diritto di veto a ciascun Paese membro sarebbe ridicolo. È evidente quindi il legame tra la politica estera, di sicurezza e di difesa. Ciò implica la creazione di una struttura di governo responsabile della politica estera, di sicurezza e difesa. Cioè di un’Unione che parli davvero con una voce sola nel mondo. È impossibile? Io sono notoriamente pessimista, ma mi limito a dire che sicuramente il processo sarà lungo. Se si guarda alla storia recente non si hanno dubbi sulla complessità di questa strada. Sulle risoluzioni Onu sul cessate il fuoco a Gaza, gli Stati membri si sono divisi in favorevoli, contrari, e astenuti. Eppure la diversità di opinioni in politica è normale, non serve un’irrealistica omogeneità di vedute, ma strumenti istituzionali per decidere democraticamente. Cioè è necessario modificare il processo decisionale, superando la regola dell’unanimità nel Consiglio, dove siedono i governi degli Stati membri, per passare alla maggioranza qualificata. Ciò è indispensabile per poter prendere decisioni in tempi ragionevoli, specialmente di fronte a delle crisi”.
Anche lei pensa che stavolta il voto dell’8 giugno per cambiare il Parlamento europeo sia veramente importante?
“L’importanza maggiore di queste elezioni deriva dal fatto, come appare ovvio, che essendo il quadro mondiale completamente cambiato, stretti come siamo fra caos e guerre, o muta la natura, la funzione stessa dell’Unione, ed essa si trasforma pensandosi come una potenza plurinazionale, come si dice in geopolitica, cambiando innanzitutto il suo funzionamento, ripeto, a partire dall’unanimità obbligatoria sulle decisioni, oppure essa esce dal giro di chi conta nel mondo. Lasciando spazio non solo alle democrazie come gli Usa, ma anche alla Cina e alla Russia, che non lo sono affatto. Proprio nel tempo in cui si passa dall’era della pace a quella della non- pace, come recita il titolo del bel libro dello studioso americano Mark Leonard”.
Eppure i tempi che lei ha vissuto non sono stati meno importanti: in quel caso cambiava proprio la fisionomia dell’Europa, con Stati nuovi che riprendevano l’identità perduta, come la Germania in primis, che si riunificava con la parte orientale, e tutti quei Paesi che erano stati inglobati nell’Unione Sovietica alla fine del secondo conflitto mondiale nella divisione del mondo che aveva portato la pace: i Baltici, la Polonia, l’Ungheria, per citarne solo alcuni. Che tempi erano quelli?
“C’era una prateria davanti a noi. Qualcuno parlava di un’Europa fino agli Urali mentre gli Stati minori dell’Urss spingevano per entrare nell’Unione perché l’Europa appariva un grande territorio di libertà, democrazia e pace. Perfino la Russia sembrava incamminarsi su una strada opposta a quella che aveva percorso nei 70 anni di comunismo. Anche se Delors, il commissario dell’epoca, ci metteva in guardia: non fate un mito dell’Europa, approfondite prima i legami fra gli Stati fondatori e poi allargate agli altri. Prodi invece segui un’altra strada, volle aprire le porte a tutti. Si comprendeva, e si comprende ancora oggi, lo spirito generoso che suggeriva questa decisione, ma la conseguenza è stata che ora si fatica a restare insieme perché la cultura delle regole democratiche e comuni non sono condivise. Basti pensare a quanto remi contro l’Ungheria per esempio, a come blocchi i processi più importanti per trarre solo vantaggi nazionali o, peggio, del partito di chi è al governo. Ciò impedisce a mio parere di proseguire celermente sulla via di una politica comune dell’Unione. Ecco perché resto nel mio pessimismo: il processo di integrazione completa resta ancora lungo, incerto e molto problematico. E ciò si ripercuote sull’opinione pubblica che appare distratta, lontana e disinteressata. Ovviamente spero di essere smentito, prima di tutto dalla partecipazione al voto di giugno.”