L’inflazione, che fino a poco tempo suscitava preoccupazione per la sua costante attitudine a collocarsi sotto il 2%, valore considerato necessario a favorire la crescita, è salita rapidamente in pochi mesi raggiungendo il 5% in Europa fino a superare il 7% negli Usa ed è divenuta rapidamente un fattore primario di criticità. Si dirà che c’era da aspettarselo, dal momento che la massa finanziaria globale ha oggi una dimensione sconosciuta nella storia e che le distorsioni della globalizzazione e la speculazione finanziaria, accompagnate dalle conseguenze della pandemia, hanno rallentato le dimensioni della crescita mondiale e generato un enorme debito pubblico.
La crisi energetica
Purtroppo, non è l’unico problema. Ad esso si deve aggiungere la crisi energetica indotta dalle vicende internazionali e dall’accelerazione verso una transizione con l’uso di fonti non inquinanti che trova in particolare il nostro Paese in maggiori difficoltà, anche per l’enorme ritardo nella diversificazione delle fonti energetiche, pur invocata da ormai più di 40 anni.
L’inflazione in Italia
L’inflazione in Italia dagli anni Cinquanta ad oggi ha segnato il 7,5% nel 1963 per poi oscillare dal 1973 al 1985 tra il 10,8 e il 9,2%, con la punta drammatica del 21,2% nel 1980, quando, ricordando Weimar, si diceva che prima fonde la moneta e poi cade la democrazia. Poi per una ventina di anni l’inflazione è andata via calando fino ad attestarsi su livelli minimi, nel 2021 all’1,9%.
La scala mobile e l’accordo di San Valentino del 1984
Una componente rilevante del fenomeno, attribuita negli anni ’80 al meccanismo della scala mobile, fu oggetto di accanite trattative sfociate nell’accordo di San Valentino il 14 febbraio 1984 con la rottura dell’unità sindacale cui fece seguito il referendum promosso da Enrico Berlinguer e si concluse con la sconfitta del Partito Comunista.
L’accordo dei sindacati col governo Ciampi
Fu una vera svolta, resa drammatica dalle circostanze della morte prematura del segretario del PCI durante un comizio, e che portò negli anni successivi anche ad altri momenti conflittuali ma trovò infine uno sbocco nell’accordo di tutti i sindacati e degli imprenditori col Governo Ciampi nel 1993, che diede vita ad una revisione ordinata del sistema della contrattazione collettiva in nome della politica dei redditi. L’assunzione di responsabilità per il risanamento e lo sviluppo del paese portò il sindacato in primo piano anche come soggetto politico.
I compiti del sindacato: non solo salari e inflazione
La storia si può ripetere? È possibile e sicuramente augurabile. Purtroppo, oggi la situazione è complessa e soprattutto non è escluso un peggioramento che potrebbe accentuare fino a rendere drammatico il conflitto sociale. È innegabile che il sindacato è costretto a presidiare una frontiera assai vasta, dalla perdita del valore reale delle retribuzioni alla riforma fiscale, dall’occupazione (si pensi all’automotive) alla riforma delle pensioni, da un modello più equilibrato di relazioni industriali che introduca anche vere esperienze partecipative alla ricerca di strumenti più idonei a combattere la povertà senza ricorrere a forme di assistenza generalizzata che finiscono per non tutelare davvero i più deboli.
E infine la questione irrisolta dell’attuazione delle norme costituzionali, a partire dall’articolo 39, per salvaguardare nello stesso tempo la libertà di contrattazione ad ogni livello e il riconoscimento della rappresentatività effettiva di ciascuna organizzazione. Se il sindacato facesse di ogni erba un fascio commetterebbe un grave errore che lo porterebbe ad uno scontro frontale con il Governo che, piaccia o meno, dispone delle risorse del PNRR che sono un’occasione irripetibile per la rinascita dell’economia e della società italiana.
Oggi la scala mobile contro l’inflazione sarebbe un errore
Certo, non è semplice avviare un confronto sui singoli temi senza ignorare che fanno tutti parte di un sistema di vasi comunicanti, ma questa è la tattica più efficace per dipanare la matassa. In particolare, in materia salariale sarebbe un errore, per le stesse ragioni di quarant’anni fa, pensare ad un ripristino sui generis della vecchia scala mobile, per altro sopravvissuta in parte non in quanto meccanismo ma nell’indice IPCA, seppur depurato della componente internazionale.
Puntare sui contratti nazionali e su quelli aziendali
Occorre rinnovare i singoli contratti nazionali alle loro scadenze avviando anche una campagna generalizzata di contratti aziendali, sfruttandone tutte le potenzialità legate a parametri di crescita e che può beneficiare di incentivi fiscali. Sono reali le difficoltà della contrattazione di secondo livello territoriale ma è una sfida a cui non si può rinunciare.
Gli imprenditori sono i grandi assenti
D’altra parte, una seria riforma fiscale sarebbe complementare a una stagione di contrattazione diffusa. La ricerca di una più attuale strategia da parte del sindacato è fuori discussione per evitare il rischio di un suo isolamento. Ma il sindacato non è il solo soggetto chiamato a farsi carico dell’emergenza e quel che si chiede al sindacato deve valere per il Governo e, ancor di più alle forze politiche e alle associazioni imprenditoriali. Queste ultime sembrano essere per la verità le grandi assenti.
È lecito sollecitare gli organi di rappresentanza dei datori di lavoro ad assumersi nuove responsabilità e a misurarsi in un confronto costruttivo per uscire dalle gravi difficoltà di tutto il Paese. Ha delle buone ragioni Giulio Tremonti a sostenere che i problemi che ci sono non possono essere risolti dai “vecchi globalisti, élite che sono l’antico regime di se stesse” e che “spiriti nuovi dovranno emergere”. È anche vero che oggi, come soleva ripetere per richiamare alla realtà il mitico direttore di Federmeccanica Felice Mortillaro, citando Leporello nel Don Giovanni di Mozart, “Madamina, il catalogo è questo”.