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Dietro Brexit c’è la finanza autoritaria della City

Marco Cecchini Twitter

Tufton Street è una graziosa viuzza del quartiere londinese di Westminster sulla quale si affacciano eleganti edifici in stile georgiano. Ai numeri 55 e 57 vi hanno sede gli uffici dei più importanti pensatoi inglesi pro Brexit, think tank ispirati a una filosofia economica ultraliberista dai nomi eloquenti: Adam Smith Institute, Tax Payers Alliance, Leave Means Leave ed altri. I loro finanziatori appartengono al segmento più innovativo e spregiudicato della finanza di ultima generazione: hedge fund, banche d’investimento, fondi speculativi in genere, la crème della City insomma.

Che siano stati questi i maggiori supporter dei centri di ricerca favorevoli alla separazione di Londra da Bruxelles può sorprendere. Nell’Europa continentale è perlopiù passata una narrazione secondo la quale il Regno Unito si è diviso in due come una mela spaccata a metà sulla questione Brexit: con il mondo finanziario, i giovani e le componenti più dinamiche dell’economia che sarebbero state favorevoli al Remain, mentre le fasce più anziane e conservatrici della popolazione e del business si sarebbero schierate per il Leave. Ma evidentemente la storia è più complessa e questa narrazione parziale è per certi aspetti un esercizio autoconsolatorio per chi è rimasto dentro la Fortezza Europa.

L’ultimo numero di Le Monde Diplomatique pubblica i dati della Commissione elettorale britannica sui finanziamenti della campagna per il referendum sulla Brexit, suddivisi tra foraggiatori del Leave e del Remain. Sorprendentemente, il 57 per cento delle erogazioni per il Leave è provenuto dal settore finanziario contro il 36 per cento dal settore industriale, quella che una volta si sarebbe detta la old economy. Non solo: non c’è stata omogeneità di scelte nel settore finanziario. Banche, fondi pensione, società di consulenza e comunicazione, ovvero i tradizionali protagonisti della finanza focalizzati sulla raccolta di risparmio per investimenti a breve ispirati a prudenza, hanno sostenuto, ancorché di misura, la campagna del Remain, mentre gli attori della così detta “seconda finanziarizzazione”, hedge fund in testa, si sono nella quasi totalità impegnati per il Leave

La ragione è duplice, economica e politica. Vista da Parigi, Roma o Berlino la scelta della Brexit è apparsa come un rinchiudersi del Regno Unito nei suoi confini insulari, proprio quando il mondo tendeva ad abbattere tutti i confini in un processo di integrazione crescente. Vista dalle sale operative degli hedge fund della City, invece, la Brexit è sembrata più un’opportunità di apertura che un rischio di chiusura. Il sogno degli attori della “seconda finanziarizzazione”, oggi sempre più influenti oltremanica, è fare di Londra una Singapore occidentale, ovvero una piazza offshore, una sorta di asilo fiscale per tutti coloro, istituzioni o individui, che nel mondo desiderano movimentare i propri attivi in un regime di totale libertà. La stampa inglese l’ha definito il sogno di una “Singapore sul Tamigi”.  Per gli esponenti di questo segmento della finanza, uscire dall’Unione europea è equivalso in altre parole a liberarsi della gabbia di regole e controlli che Bruxelles impone alle istituzioni finanziarie a tutela della stabilità, aprendo la strada alle politiche di liberalizzazione interna.

Che per il Regno Unito l’Europa sia sempre stata un po’ come un’amante ingombrante, alla quale si chiede sempre di più per tenere in vita la relazione, lo sapevamo dai tempi di Margareth Thatcher. La Brexit scopre ora le antiche pulsioni liberiste del paese di Adam Smith moltiplicate per enne volte (come vedremo): tutto questo proprio nel momento in cui nell’Europa continentale torna in auge, soprattutto dopo la pandemia, il keynesismo e l’importanza del ruolo dello Stato.

Nel saggio L’ère de la finance autoritaire, il mensile francese indaga sul retroterra culturale delle forze che hanno sostenuto l’uscita di Londra dalla Ue e scandaglia le idee di cui sono alfieri i think tank di Tufton Street. La conclusione è che il progetto della Brexit non è ispirato tanto alle idee neoliberali: va ben oltre Margareth Thatcher e Milton Friedman per approdare a posizioni libertarie in economia associate a forme di autoritarismo politico. L’aggettivo “libertarie”, dunque, non va inteso in un’accezione per così dire di sinistra, bensì nel senso di una totale prevalenza del mercato sullo Stato e dell’individuo sulla pretesa dello Stato di regolare i diritti dei singoli, il tutto accompagnato dalla simpatia per le posizioni muscolari in campo politico.

L’approccio libertario si allarga poi alla questione dei rapporti tra Stati, dove il multilateralismo è bocciato non in favore di forme di isolazionismo, ma di rapporti tra i singoli Stati definiti sulla base soltanto dei relativi interessi economici. Secondo David Friedman, figlio di Milton, lo Stato dovrebbe uscire anche dal settore dei servizi pubblici, come polizia, giustizia o difesa, che andrebbero privatizzati. Nell’ottica libertaria, il benessere collettivo non è il frutto di una mano invisibile che guida verso di esso la spinta al profitto dei singoli, ma il desiderio di arricchirsi è un fine in sé che prescinde da uno scopo collettivo.

Con la vittoria del Leave sul Remain e l’arrivo di Boris Johnson al numero 10 di Downing Street, gli esponenti di questa finanza di seconda generazione hanno cominciato ad occupare le posizioni chiave del gabinetto Johnson, entrando nella stanza dei bottoni dell’amministrazione di Sua Maestà. Lo scorso febbraio Rishi Sunak, fondatore dell’hedge fund Theleme Partners e membro di spicco del think tank di destra “Policy Exchange”, è stato nominato per esempio Cancelliere dello Scacchiere al posto di Sajid Javid, banchiere della Deutsche Bank e deputato. Il cofondatore dell’hedge fund Somerset Capital Management Jacob Rees Mogg è andato a occupare la prestigiosa e influente poltrona di ministro per le Relazioni con il Parlamento. Ma si potrebbe continuare.

Questi sviluppi aiutano a comprendere il retroterra della Brexit e le scelte di Boris Johnson, un personaggio che visto da Oltremanica può apparire talvolta folkloristico. Nell’ultimo decennio, in realtà, le idee ultraliberiste dei think tank di Tufton Street, generosamente sostenuti dalla finanza di seconda generazione, hanno preso quota all’interno dell’Atlas Network, una rete transatlantica di pensatoi ultraconservatori cui partecipano anche i maggiori think tank della destra radicale americana. Si tratta di una galassia politicamente coerente le cui posizioni estreme sfociano nella giustificazione dell’autoritarismo. Di qui la definizione di “finanza autoritaria” scelta da Le Monde Diplomatique.

Nelle sue forme radicali, infatti, questo libertarismo di destra in cui il mercato senza regole domina la scena considera superflua anche l’esistenza dei meccanismi compensativi e redistributivi del reddito posti in essere dai regimi democratici per garantire la coesione sociale. La logica conseguenza di questo approccio è il ricorso alla forza per garantire il controllo sociale altrimenti assicurato dai regimi democratici.

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