Nelle prime settimane del 2016 otto invitati che non si conoscono tra loro approdano alla spicciolata su un’isola battuta dal vento e dalle maree al largo del Devon. Sono ospitati da due servitori che abitano l’unica casa presente sull’isola. I proprietari sono assenti e di loro si è persa ogni traccia. Nelle loro camere ospiti e servitù trovano incorniciata sul muro una filastrocca inquietante. Parla di dieci piccoli indiani. A ogni strofa ne muore uno e alla fine non ne rimane nessuno.
Il primo personaggio a mettere piede sull’isola è la geopolitica. Nella valigia porta la bomba all’idrogeno nordcoreana, che fa
tremare l’Asia orientale, e l’assalto all’ambasciata saudita in Iran, che fa subito pensare a un’ulteriore escalation nel grande
conflitto tra sunniti e sciiti. Gli incidenti di Capodanno a Colonia e in altre città tedesche emergono a poco a poco come una prova
generale del fallimento delle politiche europee di accoglienza e mettono in grave difficoltà la Merkel nel suo partito e nell’opinione
pubblica proprio mentre si profila un’ondata imponente di rifugiati.
Si parla di un dopoMerkel guidato da uno Schaeuble intenzionato a usare i fucili per respingere i profughi e, già che c’è, a usare ogni mezzo per mettere in ginocchio l’Italia. A metà febbraio la questione geopolitica risulta però depotenziata. La Corea del Nord non ha una bomba degna di questo nome, sauditi e iraniani non si sono dichiarati guerra e sembrano anzi iniziare a discutere su come collaborare per fare risalire il prezzo del petrolio. In Germania la Merkel ha ripreso in mano partito e coalizione e i piani di Schaeuble sull’Italia dovranno comunque passare prima sul tavolo della cancelliera. Schengen è in crisi, ma la facciata resterà in piedi. Quanto alla ribellione polacca, la Merkel ha già iniziato l’addomesticamento.
Il secondo piccolo indiano è il petrolio, che a metà gennaio arriva a perdere il 30 per cento da inizio anno. La sua crisi inarrestabile viene interpretata come segnale di scarsa domanda cinese, di contrazione del manifatturiero globale e di un’imminente ondata di fallimenti sovrani e corporate tra i produttori. C’è chi si spinge a prevedere 20 o addirittura 10 dollari per il Brent. I titoli del settore cadono nel vuoto. La mattina del 18 febbraio il Brent viene scambiato a 34.80 dollari, non così lontano, a ben vedere, dai 35.75 del 31 dicembre. La domanda globale continua a crescere, mentre dal lato dell’offerta qualcosa, come abbiamo visto, comincia a muoversi.
Il terzo ospite ad arrivare sull’isola in gennaio è la Cina, con un seguito imponente di problemi che vanno dal cambio in procinto di crollare alle sofferenze bancarie sul punto di esplodere, passando per le riserve valutarie saccheggiate dagli esportatori di capitali e per una crescita vista vicina al collasso. Al 18 febbraio il renminbi offshore, a 6.52, sta però sullo stesso livello del 25 agosto. Verso euro il renminbi è oggi del 4 per cento più forte rispetto ad agosto.
Se dunque il renminbi sta crollando, l’euro sta crollando del 4 per cento in più. Nel frattempo si è scoperto che la fuga di capitali è provocata da società cinesi che rimborsano in anticipo i loro debiti in dollari raccogliendo l’equivalente in renminbi. Alla fine la posizione finanziaria della Cina risulta addirittura rafforzata. Il quarto piccolo indiano, i fallimenti, sbarca come Nosferatu da una imbarcazione invasa dai topi e dalla peste. La lista delle possibili vittime che circola nei mercati copre quasi interamente il mondo del petrolio (incluse
alcune delle major), le società minerarie e un numero imprecisato di paesi sovrani produttori di materie prime. I fallimenti ipotizzati, naturalmente, sono destinati a trasmettere il contagio alle banche e agli obbligazionisti che li hanno finanziati, creando una generalizzata crisi di fiducia.
Al 18 febbraio non risultano però fallimenti degni di nota, né corporate né sovrani. Gli analisti oil di Goldman Sachs, dal canto loro, sono andati a guardarsi meglio la situazione finanziaria delle società che seguono e hanno scoperto che un terzo non ha nemmeno un rimborso obbligazionario da effettuare nei prossimi tre anni, mentre due terzi, con il greggio a 35, hanno più cassa che debiti. Non escludiamo certo la possibilità di fallimenti, ci mancherebbe, ma il fatto che possano essere scaglionati nel tempo ne potrebbe diminuire l’impatto in misura significativa.
Il quinto piccolo indiano, un’ondata di chiusure forzate di fondi high yield, è stato previsto un mese fa da Jeffrey Gundlach, un gestore molto brillante e molto seguito. Non comprate bond ad alto rendimento, aveva detto, anche se il debitore dovesse apparire in grado di pagare. La crisi di liquidità che coinvolgerà in rapida sequenza i fondi dedicati al settore li costringerà a far fronte ai riscatti vendendo tutto, con effetti a valanga su tutto il comparto. Al 18 febbraio non risultano però nuove chiusure forzate dopo quelle, isolate e circoscritte, che si erano viste all’inizio di gennaio.
Sesto piccolo indiano sembravano essere gli utili, previsti in contrazione in America per effetto del dollaro forte e della crisi del comparto petrolifero e in Europa per effetto della crisi cinese. Senza essere per nulla spettacolari, gli utili si sono però rivelati stabili sia in
America sia in Europa. I mercati, nel loro desiderio di farsi del male, hanno allora diretto lo sguardo alle previsioni di medio termine comunicate dalle società. Previsioni prudenti visto il clima generale e considerato che i manager che si sono mostrati ottimisti sono stati immediatamente presi per matti e quindi comunque puniti da quotazioni in discesa.
Il settimo arrivato sull’isola, le banche, ha creato nei mercati una situazione di vera e propria psicosi. L’incendio è divampato senza cause che non fossero note da mesi, se non da anni. La cosa che stupisce di più è che il contagio sia arrivato alle banche americane, certamente non redditizie come una volta, ma sicuramente solide. Ci si è dovuti inventare un’esposizione delle banche al settore petrolifero di gran lunga superiore a quella reale, che è modesta. Nonostante la psicosi, però, non ci sono state le paventate file agli sportelli per prelevare né salvataggi interni dopo quelli che hanno coinvolto quattro piccole banche italiane e il Novo Banco portoghese. Draghi e Schauble, dal canto loro, hanno escluso che le banche chiacchierate abbiano davvero bisogno di aumenti di capitale.
Ottavo piccolo indiano sbarcato sull’isola della paura è la recessione nel manifatturiero, prodromica di una recessione globale. Effettivamente, nel quarto trimestre c’è stato segno negativo nella produzione industriale di molti paesi e un marcato rallentamento in altri. Il taglio degli investimenti in attrezzature per il settore dell’energia e delle miniere ne è stato la causa principale, ma c’è stato anche uno smaltimento di scorte e si è vista qua e là una domanda debole anche in alcuni comparti dell’elettronica e dell’abbigliamento. Su questo si è poi lavorato molto di fantasia e ci si è dilettati per qualche settimana a calcolare le probabilità di una recessione globale.
Per avere il senso delle proporzioni, si ricordi però che la contrazione del manifatturiero è stata nel quarto trimestre dell’uno per cento. Nel 2008-2009 era stata a un certo punto del 35 per cento. Il bel dato americano relativo a gennaio mostra però un recupero del manifatturiero dello 0.9 per cento. Più in generale, il Pil americano del primo trimestre sta viaggiando a una velocità annualizzata del 2 per cento contro lo 0.7 del quarto.
Nono piccolo indiano è stato nell’ultima settimana lo spauracchio di tassi negativi anche in America. Nella sua psicosi il mercato ha voluto leggere la discussione tra il Congresso e la Yellen sulla possibilità legale di tassi negativi e sull’eventuale necessità di una modifica nella legislazione come il segno inequivocabile del fervore con cui si si sta preparando a un’imminente e inevitabile recessione anche in America. In realtà la Fed sta continuando a pensare a un ciclo di rialzi dei tassi. I tassi negativi sono allo studio per la prossima recessione così come la Nasa ha pronti i piani per rispondere a un’invasione aliena della Terra. Né la recessione né l’invasione
sono però dati per imminenti.
Decimo piccolo indiano, l’ultimo ad arrivare sull’isola, è stato l’oro, balzato nei giorni scorsi del 17 per cento rispetto all’inizio dell’anno. È la conferma ufficiale, si è subito detto, della totale perdita di controllo della situazione da parte delle banche centrali e di una crisi di fiducia generalizzata (i mercati hanno paura di tutto, abbiamo letto a un certo punto in un commento su Bloomberg). Da parte nostra pensiamo da tempo che l’oro abbia buoni fondamentali di lungo periodo, se non altro per il fatto che è clamorosamente sottopesato nei
portafogli e per la maggiore turbolenza che caratterizza sempre la seconda metà di un ciclo espansivo. La fine del mondo non essendo però prossima come si pensava una settimana fa, per comprare oro sarà meglio attendere momenti di debolezza.
Nel giallo di Agatha Christie la polizia ritrova i corpi di tutte e dieci le vittime. Nel nostro caso alcuni dei dieci piccoli indiani risultano al momento dispersi. Alcuni di loro potrebbero essersi nascosti nelle grotte dell’isola, pronti a rientrare di nuovo in gioco nel corso di questo 2016 che si preannuncia animato e ricco di colpi di scena. Al momento, però, i contadini lunghi stanno inseguendo con i forconi i nomadi short che hanno fatto tutte le incursioni che volevano nelle scorse settimane. La ritirata degli short è precipitosa perché all’improvviso tutti i dieci fattori che abbiamo elencato sembrano avere cambiato di segno.
Ci aspettiamo quindi altri recuperi in overshooting. Non ci sono solo gli short da incalzare coi forconi ma anche i nuovi sottopesati, quelli che hanno venduto troppo nelle scorse settimane per paura del peggio e che ora si scoprono troppo leggeri. E si sa che, in questi casi, non si fanno prigionieri. Il rialzo, a un certo punto, sarà vittima del suo successo perché la Fed, vedendo i mercati di nuovo in salute, ritirerà fuori dal cassetto il suo programma di rialzo dei tassi. Poiché però lo shock delle scorse settimane è ancora fresco, è possibile che la Fed salti il rialzo di marzo e aspetti giugno. In questo caso gli short si troveranno a dovere restituire gran parte del bottino che hanno accumulato nelle recenti razzie.