Non serve un Premio Nobel dell’economia e nemmeno un solone della finanza per capire perchè molti investitori stranieri, con la parziale eccezione dei fondi attivisti, stanno voltando le spalle all’Italia e in soli due mesi hanno venduto 72 miliardi di euro in titoli di Stato, azioni e bond. Basta leggere le cronache dei giornali e dei siti online degli ultimi giorni per comprenderlo. Crisi Diciotti e scontro con l’Europa, duello tra Governo e Autostrade sul futuro della convenzione, su indennizzi e nazionalizzazione, harakiri sull’Ilva con il rischio sempre più concreto di chiusura del più grande impianto siderurgico d’Europa e 20 mila lavoratori a spasso: tre autogol, uno più grande dell’altro, che rappresentano una picconata terribile alla credibilità e all’affidabilità dell’Italia e che ci spinge ai margini dell’Europa, senza nemmeno bisogno dei fantomatici piani B del ministro Savona.
Il rischio Italia cresce giorno dopo giorno, lo spread Btp-Bund è tornato a quota 280 e, di fronte al rarefarsi degli investitori, il Tesoro è costretto a pagare oltre il 3,1% sul decennale del Btp per rastrellare risorse che finanzino l’enorme debito pubblico italiano. Non è colpa del destino cinico e baro e men che mai di inesistenti complotti della finanza internazionale o di misteriore forze oscure ma della impressionante collezione di autogol che il Governo sovranista e populista sta mettendo insieme senza che affiori un’alternativa democratica degna di questo nome.
Il divieto di sbarco dalla nave Diciotti imposto dal ministro Matteo Salvini a 150 migranti, ormai allo stremo, e il conseguente scontro con il Quirinale, con la magistratura e con l’Unione Europea e l’umiliazione della nostra Guardia Costiera, sono l’inevitabile e drammatico sbocco di una politica muscolare che vede l’emergenza migranti dove non c’è più e che, come era fin troppo facile prevedere, non è in grado di mantenere nemmeno lontanamente le promesse di rimpatri. Non occorreva un genio per capire che, se vuoi cambiare il Trattato di Dublino e ricollocare gli immigrati in tutta Europa, il machismo può farti guadagnare qualche consenso effimero ma non risolve nessun problema, anzi peggiora le cose. Servirebbe una intelligente politica delle alleanze ma se infili ogni giorno le dita negli occhi dei tuoi partner europei come fai ad aspettarti solidarietà e comprensione?
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La Caporetto diplomatica sul ricollocamento dei migranti della nave Diciotti, affiorata anche ieri nell’incontro tra gli sherpa, fotografa in maniera plastica l’isolamento in cui l’Italia è finita in Europa e sarà curioso, se non fosse drammatico, vedere come finirà il prossimo incontro tra il capo leghista del Viminale e il premier ungherese Orban, il leader del gruppo di Visegrad a cui Salvini guarda come a un santo ma che noi ha mai fatto mistero della sua totale indisponibilità a farsi carico degli immigrati sbarcati in Europa. Ma che dire della puerile e rancorosa minaccia di Salvini e Di Maio di non pagare più per ritorsione i contributi all’Europa? Per fortuna alla Farnesina c’è un ministro degli Esteri con la testa sulle spèalle e con la comptenza di Enzo Maovero Milanesi che ha opportunamente ricordato ai due che pagare i contributi europei è, anche per l’Italia, un “dovere legale”.
Basterebbe l’indecoroso show sulla Diciotti e la sgangherata sfida lanciata all’Europa a far perdere credibilità all’Italia sul piano internazionale, ma dove non arrivano la Lega e Salvini ci pensano Di Maio e i Cinque Stelle a peggiorare la situazione, rispetto alla quale è di tutta evidenza l’insostenibile inconsistenza del premier Conte. Lo schema del sovranismo e del populismo italico è ormai chiaro: quando sorge un problema ciò che conta non è provare a risolverlo ma fare a gara a chi urla di più e a chi la spara più grossa, salvo poi individuare un colpevole quando la soluzione non appare a portata di mano. Così è sui migranti ma così è anche per Genova e per l’Ilva.
Dopo aver minacciato, con Di Maio, di mettere all’indice Autostrade, considerata l’unica colpevole del crollo del Ponte Morandi prima che si concludessero le indagini, il Governo ha prima ipotizzato la revoca anticipata della concessione autostradale (salvo scoprire poi che allo Stato costerebbe 22 miliardi) e poi ha ventilato un salto all’indietro con la nazionalizzazione, opportunamente frenata dal sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti. Ma come andrà a finire nessuno lo sa e l’inquietudine dei mercati ne ha preso buona nota.
Poi c’è il capolavoro dello statista di Pomigliano sull’Ilva, Luigi Di Maio. Ossessionato dal suo predecessore al Ministero dello Sviluppo economico, Carlo Calenda e soprattutto incalzato dalla base grillina che vorrebbe la chiusura dell’impianto siderurgico di Taranto per creare un parco che metterebbe in ginocchio industria e occupazione, il vicepremier grillino sta scherzando con il fuoco e spingendo l’Ilva verso il baratro, malgrado ci sia già un gruppo internazionale com Arcelor-Mittal pronto a investire e a bonificare l’area pugliese. Prima s’è inventato la richiesta di un nuovo parere all’Avvocatura dello Stato, poi – quando questa non s’è spinta a suggerire l’annullamento della gara che aveva assegnato l’impianto tarantino ad Arcelor-Mittal – ha secretato il parere (con buona pace dei tempi dello streaming grillino) e ha preso altro tempo, cercando di scaricare la patata bollente sul ministero dell’Ambiente. Ma di tempo non ce n’è più perchè il 15 settembre scade il mandato dei commissari e soprattutto, alla fine del mese prossimo, finisce la cassa dell’Ilva, che perde un milione al giorno e che di soldi non ne ha più. Di fronte alle capriole di Di Maio quale investitore internazionale si fiderebbe più dell’Italia? E poco importa che il nostro Paese rischi di perdere il più avanzato impianto siderurgico e la più grande fabbrica del Sud e che 20 mila lavoratori rischino di restare a spasso. Ventimila più gli 80 mila che andranno perduti con il decreto sui contratti a termine fanno 100 mila posti di lavoro in meno: questo sì che è un record, professor Di Maio.
buffoni