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Delhi incentiva l’Fdi per importare tecnologia. Ma pretende la più stretta osservanza delle regole

Per comprendere quali sono i paletti posti dalle norme indiane sul Foreign direct investment (Fdi) è necessario addentrarsi tra le pieghe della tripartizione già delineata nel primo articolo di questa serie: quello in cui si spiegava che in India esistono settori chiusi agli stranieri, settori soggetti ad approvazione e settori aperti. Come spiega Jacopo Gasperi, of counsel Macchi di Cellere Gangemi e of counsel Titus&Co (New Delhi), ci sono anche eccezioni riservate a realtà industriali non dissimili da quelle italiane (pensiamo a quelle small scale industries che in Italia chiameremmo piccole e medie imprese) e che in India hanno ottenuto un riconoscimento del proprio status anche sotto il profilo delle politiche protezioniste così in voga fino al 1991 e ancora non del tutto smantellate ai giorni nostri.  “Riguardo le small scale industries – spiega Gasperi, riferendosi a uno dei settori messi al riparo dalla possibile concorrenza di un player straniero che decide di venire a produrre e vendere in India  – va detto che nel corso degli ultimi anni si è passati da una lista di migliaia di tipologie di prodotti tutelati a una fatta ormai da poche centinaia di articoli e che il limite massimo all’investimento estero in questo settore è stato fissato al 24%”. L’elenco è a dir poco vario e spazia dalle scarpe in cuoio alle carte da gioco, ma la tendenza a ridurre progressivamente il numero di settori protetti non segnala solo la crescente apertura dell’India agli investimenti esteri, ma anche un cambiamento di ottica.

“L’epoca – prosegue Gasperi – in cui l’industria indiana puntava semplicemente ad attirare capitali esteri può dirsi ormai al tramonto. Non è certo la liquidità a essere carente di questi tempi. Il nuovo obiettivo degli imprenditori indiani è la tecnologia. Siglando una joint venture con un partner straniero oggi vogliono importare nel proprio paese in primo luogo macchinari e know how superiori a quelli che posseggono oggi. Talvolta l’operazione si rivela più agevole del previsto per i player stranieri perché trasferire in India una linea che per gli standard europei può dirsi superata spesso significa mettere a disposizione del proprio socio indiano una tecnologia che è comunque più avanzata rispetto a quella attualmente utilizzata nel Subcontinente”. Questo bisogno di importare “qualità produttiva” si riflette anche nella recente decisione di rilassare le norme che regolano la corresponsione di royalties, un modo come un altro per incentivare i traferimenti di tecnologia verso il paese.

Sul fronte degli adempimenti formali il ruolo giocato dalle banche di riferimento è il più delle volte cruciale. “Uno dei meccanismi più impiegati per ‘aprire in India’ – prosegue Gasperi – consiste nel far creare da un referente di fiducia in loco una shell company e poi chiedere il trasferimento di una parte o tutte le quote”. In questi casi è bene che l’aspirante investitore sia al corrente del fatto che la creazione del guscio societario può richiedere dalle tre alle quattro settimane e che il trasferimento delle quote può rivelarsi un affare più complicato del previsto. “Può capitare che occorrano anche sei mesi per completare l’operazione. Talvolta si perdono grandi quantità di tempo per la traduzione della documentazione. Non solo, la stretta osservanza delle regole sui traferimenti di fondi è indispensabile per evitare di restare impantanati”.

I soldi con cui si acquisiscono le quote della propria futura società indiana devono infatti transitare su canali predefiniti e in quantitativi esatti alla rupia. Versare qualcosa in più, anche quando si tratta di cifre minuscole e di banali arrotondamenti, può finire per far scivolare negli ingranaggi della titanica macchina burocratica indiana il proverbiale granello di sabbia e costare carissimo in termini di tempo. “L’altra cosa di cui è necessario assicurarsi – spiega Gasperi – ha a che fare con la propria banca di riferimento in Italia. Le normative KYC (know your customer) attualmente in vigore in India sono molto precise e nella loro applicazione gli istituti di credito indiani non ammettono deroghe. Talvolta capita che le controparti italiani liquidino questi adempimenti come banali formalismi su cui non vale la pena di sprecare il proprio tempo. Errore gravissimo: il rischioè di alzare un muro fatto di diffidenza e incomprensione tra sé e la propria controparte indiana.

Quando si formula una richiesta al Foreign investment promotion board per avviare un’attività che non gode di approvazione automatica è bene appoggiarsi a uno studio legale locale. Non solo per una questione di correttezza formale della propria domanda. Ma anche per poter conoscere gli orientamenti del board rispetto all’allargamento dell’offerta in determinati settori. Aprire una catena di negozi monomarca in India è tecnicamente possibile a patto di non detenere più del 51% della società, ma rispettare questo paletto da solo non assicura l’approvazione della propria richiesta. Esistono anche parametri più discrezionali come il grado di internazionalizzazione del proprio marchio. In altre parole, una società italiana di abbigliamento che volesse avviare il suo processo di internazionalizzazione partendo dall’India commetterebbe un passo falso perché difficilmente otterrebbe il via libera del Foreign investment promotion board.

L’orientamento del governo è infatti quello di incentivare l’ingresso di marchi riconosciuti a livello mondiale rispetto a quelli con una semplice rilevanza nei propri paesi di origine. Un modo per internazionalizzare il provinciale mercato indiano del retail e allo stesso tempo limitare la concorrenza estera in quei settori dove esistono potenzialmente dei player indiani in condizione di subirla. In altre parole è particolarmente gradito l’ingresso di marchi come Chanel o Dior (che non a caso sono già presenti nel paese) che danno prestigio ai mall indiani, ma non possono in alcun modo danneggiare la nascente industria indiana del lusso. Quest’ultima è infatti caratterizzata da un’offerta completamente diversa, sia nei gioielli che nell’abbigliamento, ed è di gusto squisitamente locale, il che la rende poco o nulla suscettibile alla concorrenza dei prodotti delle grandi case europee. (fine seconda parte)

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