Il Decreto Legge 87/2018 prevede misure in materia di: contrasto alla precarietà (Capo I artt. da 1 a 4); contrasto alla delocalizzazione e salvaguardia dei livelli occupazionali (Capo II Artt. da 5 a 8); contrasto alla ludopatia (capo III art. 9); semplificazione fiscale (Capo IV artt. da 10 a 12); varie disposizioni finali e transitorie (capo V, artt. da 13 a 15).
Nella presente memoria sono trattati in particolare gli interventi in materia di contrasto alla precarietà e delocalizzazioni.
1. Contrasto alla precarietà
Il primo tema da affrontare riguarda la quantificazione dei lavoratori che saranno immediatamente interessati dall’apposizione delle causali e dall’introduzione di un limite di 24 mesi per il contratto a termine. È noto che la Ragioneria Generale dello Stato abbia stimato in 80mila la platea dei lavoratori con contratti sopra 24 mesi che verrebbero subito cessati (il 10% di quali non troverebbero subito lavoro da cui il numero di 8000 disoccupati).
I dati disponibili del Ministero del Lavoro non permettono di identificare le coppie impresa-lavoratore che, invece, sono necessarie per stimare la platea delle persone interessate. Il Veneto elabora da tempo i dati delle comunicazioni obbligatorie in modo da poter individuare anche le coppie lavoratore-impresa. Le stime per la Regione Veneto possono essere proiettate su una platea italiana moltiplicando approssimativamente per 9.
I contratti interessati dal limite a 24 mesi in Veneto sono 25.000 di cui 17 mila contratti a termine e 8 mila in somministrazione: 25 mila x 9 fa 225.000 contratti, i quali a loro volta costituiscono una stima per eccesso tenuto conto che alcune coppie lavoratore-impresa risalgono ad anni passati. Ciò detto, i contratti che si possono considerare come certamente cessanti perché superiori a 24 mesi si collocano tra i 225.000 stimabili a partire dai dati veneti delle comunicazioni obbligatorie e gli 80.000 della Ragioneria.
Secondariamente, va affrontato il tema dei contratti cui si devono apporre le causali, quindi quelli di durata tra i 12 e i 24 mesi. Questi contratti, sempre secondo la Regione Veneto, sono 54 mila di cui 41mila a termine e 13 mila in somministrazione: 54 mila x 9 fa 486.000 contratti (che pure potrebbero essere stimati un po’ per eccesso anche perché le agenzie di somministrazione hanno già prontamente provveduto a rinnovi fino a fine anno). Per questi contratti si pone un problema immediato di apporre una causale in caso di rinnovo. Il fatto di rendere l’obbligo attivo anche per i contratti in essere è un problema particolarmente serio perché la causale, così come scritta (attività aggiuntiva o straordinaria o sostitutiva), è poco applicabile. In pratica, potrebbe indurre molti datori di lavoro a cambiare lavoratore piuttosto che apporre una causale per il rinnovo di un contratto.
Ciò che desta particolare preoccupazione è la reazione delle imprese di fronte alla riduzione della durata dei contratti e all’introduzione delle causali. È probabile che saranno disposte a offrire contratti a termine per la durata di 12 mesi, alcuni dei quali saranno trasformati a tempo indeterminato (in effetti già le trasformazioni avvengono nel dodicesimo mese), mentre molti altri contratti sicuramente passeranno per la Naspi, uno strumento disponibile dal 2015 per i contratti a termine (prima della riforma del Jobs Act una minoranza di contratti a termine aveva diritto al sussidio di disoccupazione).
È, quindi, prevedere con una certa sicurezza un aumento dei flussi nella Naspi, e, solo nel caso la domanda di lavoro resti immutata, anche un equivalente aumento dei flussi fuori dalla Naspi, ovvero una sostituzione di un lavoratore con l’altro (che pure passerebbe attraverso la disoccupazione). All’aumento del turnover corrisponde, quindi, l’aumento, rispetto a oggi, del numero di persone che comunque passerebbero per un periodo di disoccupazione.
In alternativa, le aziende potrebbero adattarsi al nuovo quadro legislativo trasferendo parte di questi contratti a termine in contratti co.co.co., collaborazione occasionale e contratti intermittenti, ossia contratti più precari per i lavoratori. Entrambi questi aggiustamenti (più turnover o più forme alternative di contratto) sono costosi sia per i lavoratori (saranno più precari) sia per le aziende che devono affrontare costi burocratici e di formazione di nuovi lavoratori ad ogni sostituzione. Se l’aggiustamento non sarà rapido, i costi saranno alti e si creerà maggiore disoccupazione.
Particolarmente gravoso, poi, pare l’aumento dei costi dello 0 5% per ogni rinnovo o proroga che porti il contratto al di sopra dei 12 mesi. Per fare un esempio su un contratto di €20000 lordi l’anno, già oggi un contratto a termine costa circa €1300 in più, domani con 3 rinnovi arriverebbe a €1600 in più. Ovviamente non è un grosso problema per chi fa solo un rinnovo oltre 12 mesi; di certo lo è per le aziende che fanno moltissimi rinnovi, alcuni dei quali avvengono anche a distanza di tempo, come nell’ipotesi in cui un lavoratore venga assunto nel mese di marzo di ogni anno per un mese.
In conclusione, da una rapida analisi delle misure, risulta evidente come l’effetto di questa norma sarà una riduzione dei rinnovi contrattuali oltre i 12 mesi per evitare di sostenere costi aggiuntivi e incorrere nel rischio causali, nonché la propensione a sottoscrivere contratti a termine di durata inferiore ai 12 mesi.
C’è ora da chiedersi quanti di questi verranno trasformati a tempo indeterminato. In media ogni anno il 20% di chi possiede un contratto a termine ottiene la trasformazione in un contratto a tempo indeterminato: l’Italia vanta, cioè uno dei tassi di transizione più bassi in Europa. In questo quadro, il Decreto in esame non sembra, però, voler incidere per invertire la rotta, tenuto conto che esso prevede misure volte ad aumentare il costo dei contratti a tempo indeterminato.
Pur trattandosi soltanto del costo per casi di l licenziamento illegittimo, occorre tenere presente che la metà dei contratti a tempo determinato dura oggi meno di 3 anni (anche prima del JA) e il 40% di questi termina con un licenziamento. Molto spesso questi licenziamenti non vengono impugnati perché si preferisce trattare una buonuscita; appare ovvio, pertanto che aumentare del 50% il costo di un licenziamento illegittimo aumenterà anche il punto di riferimento delle buone uscite. In altre parole: se la buonuscita è di 10000 euro e consente di evitare di affrontare un contenzioso che potrebbe costare €20000 (quattro mensilità lorde e i costi degli avvocati), laddove domani il costo del contenzioso salirà a 30000 euro, la buona uscita dovrà essere di 15000 euro. Ogni anno si attivano 1,4 milioni di contratti tempo indeterminato e 400mila finiscono con licenziamento: un aumento di costi (seppur eventuali e futuri) per 5000 euro ciascuno non è poco.
Le valutazioni fatte fin qui evidenziano come il mix di ingredienti di questo decreto sia sbagliato, e contraddittorio perché pone un ostacolo ai contratti a termine con clausole, limitazioni di duratae contemporaneamente alza i costi del contratto a tempo indeterminato, disincentivando le trasformazioni. Sarebbe stato corretto fare una riduzione delle durate del termine e contemporaneamente una riduzione del costo del tempo indeterminato, come accadde per esempio l’anno scorso in occasione dell’introduzione della riduzione strutturale del contributi al 50% per i giovani sotto i 35 anni. Ove si fosse proceduto per questa strada, la ragioneria e l’INPS non avrebbero potuto opporre che a un aumento del costo del lavoro debba corrispondere una diminuzione dell’occupazione e un aumento della disoccupazione, perché in quel caso si sarebbe previsto un ostacolo per il tempo determinato, da un lato (la riduzione delle durate), e una riduzione dei costi del tempo indeterminato, dall’altro. La soluzione che, invece, si sta discutendo in questi giorni, ossia di prevedere uno sconto dello 0.5% per i datori di lavoro che trasformano i contratti a termine in indeterminato sembra una non soluzione, perché è già scritto così nella norma. Delle due l’una: se è già scritto così, ovviamente, un emendamento di tale fattispecie non avrebbe senso; se, invece, la norma non prevede uno sconto tale emendamento avrebbe bisogno di una copertura.
2. Delocalizzazioni
Le norme in materia di delocalizzazioni rischiano di essere, nel migliore dei casi inutili, nel peggiore dannose, soprattutto se combinate con quelle già esaminate in materia di lavoro. Rappresentano un segnale pericoloso di politica anti-industria e anti-impresa per grandi, piccole e medie imprese e lavoratori che, nonostante le difficoltà, continuano a credere nel sistema Italia. Se sul piano politico appare condivisibile una supervisione e un contrasto anche forte rispetto a eventuali comportamenti predatori di aziende che utilizzano in maniera opportunistica gli incentivi pubblici alle attività produttive, su un piano di merito e tecnico nonché al fine di assicurare efficacia e proporzionalità degli interventi, va osservato che sarebbe più utile affrontare il tema in sede europea adottando misure condivise che rafforzino la competitività dell’UE rispetto ai competitori internazionali.
In premessa, però, onde evitare che le norme si traducano in una mera operazione anti-industriale, sarebbe stato utile che il decreto chiarisse la portata del fenomeno oggetto dell’intervento: la relazione illustrativa fa riferimento a “sempre più imprese”, ma per giustificare un articolato così corposo sarebbe quanto meno doveroso dar conto del quantum, del tipo di aziende, del tipo di incentivi di cui hanno goduto e per quanto tempo, da ultimo dei luoghi/paesi verso i quali si è delocalizzato se UE o extra-UE. Disporre di una base di dati adeguata, coerente e significativa è fondamentale per disegnare interventi normativi efficaci e non misure pamphlet.
Nel merito delle misure vanno fatte poi alcune osservazioni puntuali:
a. Le norme parlano genericamente di aiuti di stato destinati agli investimenti produttivi. Qui andrebbe chiarito quale tipologia di aiuti è oggetto del decreto. Dalla lettura delle norme sembrerebbero inclusi ogni tipo di aiuto notificato e autorizzato dalla Commissione europea, quale sia l’importo e la finalità. In altri termini, se un’azienda dovesse aver goduto di un aiuto, anche se di minimo importo pur avendo nel frattempo generato valore per il paese (e in un certo senso “ammortizzato” il beneficio utilizzato), ove decidesse di spostarsi altrove sarebbe tenuta a una restituzione. Al netto della difficoltà di quantificare e individuare correttamente tipologia, importo, durata e entità degli aiuti goduti, la norma e le previste sanzioni mancano di proporzionalità e di razionalità con l’effetto di scoraggiare le imprese, a partire dalle multinazionali, a investire nel Paese avvalendosi dell’importante dotazione di incentivi pubblici a disposizione.
b. Per quanto riguarda gli aiuti che prevedano vincoli localizzativi all’interno del territorio nazionale e europeo, va detto che il decreto pare ignorare che già oggi il diritto dell’UE autorizza e riconosce aiuti con destinazione territoriale specifica. È il caso di aiuti destinati alle aree depresse o svantaggiate, alle operazioni a valere su Fondi strutturali e di investimento, agli aiuti a finalità regionale o ancora agli aiuti destinati alle imprese dislocate in territori oggetto di calamità naturali. Tali aiuti sono “localmente” vincolati perché sono finalizzati alla coesione economica e sociale, con l’obiettivo di garantire una crescita diffusa dell’economia europea. Per tutti questi, peraltro, sono già previste revoche e restituzioni. Se cosi è, allora, ci si chiede se si tratti di una repetita iuvant e, pertanto, il Decreto 87/2018 è, in questo caso, certamente inutile ma politicamente dannoso.
c. Incomprensibile, inoltre, è il collegamento tra la misura in materia di iperammortamento di cui all’art 7 con il citato art. 6 comma 1, ai fini della delimitazione del campo di applicazione. Per come scritta la norma lascia intendere che l’ “iper”sia godibile per imprese localizzate in Italia che siano a loro volta destinatarie di misure di aiuto con vincoli occupazionali. È da chiedersi se questa lettura sia corretta e se del caso se ne ha chiaro l’impatto che rischia di escludere una platea di imprese (sommando iper a un aiuto) e, nella migliore delle ipotesi, collega l’acquisto di un bene agevolato (quale esso sia e di qualsiasi importo e utilità) con obblighi di mantenimento di posti di lavoro. Il licenziamento di un lavoratore non necessariamente dipende dal bene acquistato ma può dipendere da fattori vari e diversi, che rientrano nella libertà organizzativa di un impresa e trovano altri strumenti di regolazione. Tale intervento sembra ridondante e potenzialmente disincentivante dell’uso dell’iperammortamento, visto che la misura ha già una propria causa specifica di decadenza (l’esportazione del bene).