Nessuno ne parla più, ma il mostro rimane lì e ci guarda minaccioso. È il debito pubblico italiano, che il Governo stima in crescita al 135,7% del Pil nel 2019. Questo almeno secondo la nota di aggiornamento al Def di settembre, perché solo quattro mesi prima la previsione dell’esecutivo gialloverde si fermava al 132,6%. Intanto, Bankitalia certifica che a novembre il peso del macigno è tornato a salire, arrivando a 2.444,6 miliardi di euro. E la Commissione europea avverte che, continuando così, il debito/Pil aumenterà di un altro 10% in un decennio, mentre il Fondo monetario prevede che sfonderemo il muro del 160% nel giro di 15 anni.
RIDURRE IL DEBITO-PIL: LA STRADA DEL DEFICIT…
Al momento, il problema è scomparso dal dibattito pubblico italiano, ma anche quando se ne parla, di solito la soluzione proposta è una sola: aumentare il deficit per far crescere il prodotto interno lordo e così ridurre il rapporto debito/Pil. Di questa teoria «esiste una versione “di sinistra”, che consiste nell’aumentare la spesa, promossa dai politici che spesso si definiscono keynesiani – scrive Giampaolo Galli sulla Rivista di Politica Economica di Confindustria – Oppure una versione “di destra”, che prevede di tagliare le tasse, promossa dai politici che non sopportano di essere considerati keynesiani».
…E QUELLA DELL’AVANZO PRIMARIO
Secondo Galli, già dirigente di Bankitalia ed ex Direttore generale di Confindustria, «entrambe le versioni promettono miracoli che non fanno», perché «tutti i casi di successo analizzati mostrano che una riduzione significativa del debito non è mai stata raggiunta aumentando la spesa o tagliando le tasse. L’unica strategia di successo per ridurre il debito è stata quella ortodossa, ovvero un miglioramento dell’avanzo primario», cioè la differenza positiva fra entrate e spesa pubblica al netto degli interessi sul debito.
I COSTI SOCIALI E POLITICI
Già, ma di quanto? La Banca d’Italia sostiene che per mettere in sicurezza il Paese servirebbe un avanzo primario pari al 3-4% del Pil mantenuto per molti anni. Un livello davvero alto: forse troppo, considerando che nel 2018 eravamo all’1,5%. «Molti ritengono che un avanzo del genere non sia socialmente e politicamente sostenibile – continua Galli – Questa è anche l’opinione di autorevoli economisti: in particolare, Eichengreen e Panizza hanno studiato molti episodi di consolidamenti fiscali giungendo alla conclusione che avanzi quali quelli che sono richiesti all’Italia non sono realistici. A conclusioni sostanzialmente analoghe giunge un lavoro del Fondo Monetario redatto nel corso delle discussioni sulla necessità di ristrutturare il debito pubblico della Grecia nei confronti delle istituzioni europee».
DUE PROPOSTE
Insomma, un vicolo cieco? Non necessariamente. Per Galli, l’unica strada praticabile passa per una mutualizzazione parziale dei debiti a livello europeo. In particolare, l’economista cita due proposte. Una firmata da Marika Cioffi, della Banca d’Italia, in base alla quale «ogni Paese trasferisce a un Fondo europeo un flusso di risorse commisurato al proprio rischio creditizio con cui il Fondo acquista titoli del Paese». L’altra di Gabriele Giudice (Commissione Europea), che prevede l’emissione di eurobond da parte di «un emittente comune europeo che concederebbe gli importi così raccolti sul mercato agli stati membri attraverso prestiti privilegiati».
Per ora nessuna di queste proposte è arrivate ai tavoli negoziali. E il motivo, conclude Galli, è semplice: «Mancanza di fiducia reciproca».