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De Rita: saranno filiere e reti internazionali a orientare la globalizzazione

La lotta ai cambiamenti climatici, la transizione energetica, la mancanza di chip riportano alla ribalta le considerazioni di forte attualità di un grande intellettuale come il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, nella sua introduzione al libro di Stefano Cingolani, “Il capitalismo buono”, di cui riproponiamo un estratto

De Rita: saranno filiere e reti internazionali a orientare la globalizzazione

Il valore professionale del libro “Il capitalismo buono” di Stefano Cingolani va ricondotto all’antica tesi del suo autore, cioè che il capitalismo è proteiforme, sempre cangiante, capace di modificare continuamente i suoi parametri di comportamento. E così può accadere che a Norilsk, una località quasi fantasmatica a migliaia di chilometri da Mosca, il capitalismo renda questa landa sperduta (e infelice) una componente essenziale dello sviluppo globale (e non inquinante in quanto “elettrico”) del grande fiume della globalizzazione, nei suoi processi tecnologici come nelle sue strategie qualitative. Condividendo da sempre l’idea di uno sviluppo (e/o di un capitalismo) sempre proteiforme io farei leggere questo libro di Cingolani a tanti giovani e studiosi (io l’ho fatto con i miei colleghi del CENSIS) perché è impressionante nella sua ricchezza di informazioni e notazioni sulla enorme e continua carica di innovazione planetaria complessa, ma anche estremamente veloce. È la velocità dei processi globali in fondo la cifra della storia odierna, in una “ineffabile divinità del divenire”.

Quando decenni fa eravamo più intellettuali che professionisti, Cingolani e io ci saremmo fermati a lungo per discutere sulle diverse interpretazioni del divenire (dalle spinte del materialismo storico allo sviluppo dei popoli di una enciclica papale, alle negazioni radicali di Emanuele Severino). Oggi non c’è tempo, il flusso della storia sopravanza quel tipo di riflessioni e soprattutto sopravanza la capacità storica (dei soggetti storici attuali) di governare, e talvolta addirittura di capire, il grande fiume di cose nuove che pervade il mondo quali che siano i luoghi da dove arrivano le diverse dinamiche (dal nickel di Norilsk alla pandemia in tante aree).

Il mondo è in divenire, ma in forme così incomprensibili che si è andata affermando una sensazione di dubbio e di paura, visto che sembrano non esserci poli di suo riferimento e governo. Ricorda Cingolani al capitolo 11 del suo libro che l’ultima creazione di poteri capaci di gestire la dinamica mondiale fu messa a punto dopo il 1945, quando a Bretton Woods i Paesi vincitori della guerra gettarono le basi per un “nuovo ordine mondiale”, con il dollaro moneta iperdominante e con un insieme di strutture multilaterali a gestire i grandi processi globali (l’ONU, il Fondo Monetario, la Banca Mondiale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, ecc.) quasi prefigurando una “governance” globale e anche un germe di governo globale.

Quella grande lucida decisione però è stata superata dagli eventi: nel tempo, i soggetti della dinamica politica ed economica sono diventati così numerosi e potenti da creare una irrevocabile molecolarità dei processi di globalizzazione, progressivamente più forte del multilateralismo istituzionale.

Abbiamo così una globalizzazione potentissima ma senza paletti e istituzioni di governo. E si può capire che, in questa situazione, sorgono critiche, resistenze, opposizioni alla globalizzazione. Un processo che in pochi decenni ha cambiato il mondo è stato messo sul banco degli imputati da studiosi e politici che ipotizzano strade di “correzione” (la globalizzazione rallentata, la globalizzazione regionale, la globalizzazione verde e responsabile, ecc.) oppure addirittura strade radicalmente alternative al modello che c’è (e che forse, dice Cingolani, è opportuno “tenercelo”).

Giuoca chiaramente in ciò una psicologia di massa segnata dall’incertezza e spesso dalla paura (vedi, come ultimo esempio, la reazione alla pandemia). Scattano di conseguenza la domanda di protezione; la convinzione che solo la politica e gli Stati nazionali siano in grado di provvedere alle urgenze; la voglia di autorità (magari anche di autoritarismo “sorvegliante”): il ricorso all’antica politica di protezione collettiva, al populismo di governo; e in ultima conseguenza il primato di un “capitalismo politico” basato sul “primo vivere” e sul massiccio ricorso all’indebitamento, visto ormai come un fattore e non un freno allo sviluppo complessivo.

Guardandoci intorno troviamo facilmente esempi di questa istanza alternativa, cui Cingolani è decisamente contrario, come si vede nel capitolo 12, dove vengono puntualizzati i fronti di debolezza dei sistemi che fanno “capitalismo politico”: la Cina, la Russia di Putin, l’Inghilterra di Boris Johnson. L’autore salva ed elogia la compattezza della Germania di Angela Merkel (succede spesso fra noi…) e quasi sospende il giudizio sull’Europa, visto che l’esplosione delle politiche di spesa “spinge l’Unione in una terra incognita, di fatto oltre le colonne d’Ercole di Maastricht e di Lisbona”. Ed è in questo quadro che Cingolani resiste con forza al capitalismo politico, ridando fiducia alla dinamica meritocratica e di mercato, anche perché essa ha permesso di salvaguardare gli ordinamenti democratici, contro lo scivolamento verso il populismo o l’autoritarismo.

C’è in giuoco in questo periodo un valore fondamentale e non solo politico ma culturale ed economico, il valore dell’apertura degli scambi e alle relazioni con gli altri. Ogni sistema che si chiude in se stesso è destinato al declino (vale per la Cina dei Ming e dei Manciù; come per l’Impero ottomano) mentre l’apertura degli scambi (commerciali e delle idee) ha fatto sì che “l’umanità si è sviluppata dalla fine delle guerre napoleoniche più di quanto fosse accaduto da Ottaviano Augusto alla Rivoluzione francese”. Il che, nota sempre Cingolani, per ragioni che hanno a che fare con la storia e la cultura, non solo con l’economia, come di mostra lo sviluppo del Giappone, degli Stati Uniti, dell’Europa occidentale.

Sta qui, a mio avviso, il nucleo dinamico della globalizzazione; essa è frutto di una cultura, chiede più cultura, e coraggiose relazioni con le altre culture, senza avere la tentazione di chiusure impaurite e securizzanti. È atteggiamento evolutivo che viene ad affermarsi sia sulle masse lavoratrici (che potrebbero accettare con serenità il lavoro flessibile, senza timori di “taylorismo casalingo”); ma anche e soprattutto sui diversi soggetti imprenditoriali, più direttamente partecipi della dinamica globale e tesi a dispiegare in essa la propria energia.

Ribadire l’irrinunciabilità del grande fiume della globalizzazione è in fondo il motivo lucidamente argomentato in questo libro. Un fiume potente e gonfio di energia, che ha invaso tutto il mondo e tutte le nostre vite, dalla gelida e ingrata Norilsk alle spiagge australiane; e che impone un adattamento continuato, anche se non pienamente convinto. Si potrebbe definirla una “forza della natura”, se non ci fosse in essa una gran quantità di tecnologia e di complessità organizzativa. Ma vengono spontanee alcune domande provocatorie: lo lasciamo andare liberamente, quel fiume sempre gonfio? Possiamo e dobbiamo governarlo e guidarlo? Possiamo prevederne i percorsi più o meno pericolosi? Dobbiamo inventarci qualche paletto di riferimento e qualche struttura di regolazione?

Entro qui su temi che mi vedono personalmente molto attento: quale e quanta “soggettività” (numero e qualità di soggetti) ci può essere e ci deve essere a guardare e interpretare il grande fiume? Quali soggetti possono dare a esso vitalità ulteriore ed eventuali correzioni? La risposta immediata e semplice è quella di indicare i due soggetti a maggiore evidenza, per potere e per dimensione: da un lato i “giganti”, le grandi imprese globali che controllano la dinamica di mercato; e dall’altro lato il potere politico e statale con la sua responsabilità di gestire gli interessi collettivi.

Su questa seconda risposta il pensiero di Cingolani (e anche mio) è chiaramente negativo: è vero che un flusso così invasivo e complesso come la globalizzazione impone un certo distanziamento da esso e consiglia di lavorare sui suoi confini, con un drive del processo di globalizzazione che deve venire dall’esterno del mercato, attraverso la domanda pubblica e/o l’intervento diretto della macchina statale. Ma l’azione pubblica si è dimostrata inadatta a navigare nella globalizzazione complessa, irrigidendosi nella corazza del presentismo statalista e nazionalistico; e tale inadeguatezza è destinata a essere ancor più drammatica nel sistema italiano, marchiato dall’impotenza sistemica della politica e dalla oggettiva debolezza della macchina amministrativa ai vari livelli.

Certo, specialmente in casi specifici e magari drammatici, come nella recente pandemia, i poteri pubblici sono chiamati violentemente in giuoco in contingenze di vario tipo. Ma il loro intervento è richiesto e funziona solo se assume le caratteristiche di urgenza, per fronteggiare singoli e segmentati fenomeni di crisi; esattamente il contrario di un potere politico che aspiri ad essere presente nella governance (se non nel government) dei processi globali. Questi, per loro natura e struttura, lasciano al potere politico e statale, solo un ruolo di “intendenza”, anche se la cosa non piace ad alcuni grandi centri di capitalismo politico.

E quali restano allora i soggetti reali della dinamica spontanea? Finora sono stati i “giganti”. Basta leggere le pagine di Cingolani e ci si imbatte sempre e fatalmente in un gigante (azienda o manager che sia) che vive e orienta i grandi processi dell’attuale globalizzazione, da quelli telematici a quelli digitali, a quelli finanziari, a quelli della distribuzione, a quelli dell’intrattenimento; i restanti soggetti, spesso numerosi, non sfuggono alla “dipendenza”, si tratti di medie imprese o di amministrazioni pubbliche a vario livello.

C’è spazio fra i giganti e la sfera della dipendenza? Se i primi si rendono conto di non poter vivere a lungo nel protagonismo solitario (magari colorato di green e di responsabilità sociale), forse uno spazio di gestione ordinaria dell’attuale irrevocabile globalizzazione esiste, ed è quasi naturale e fenomenologico. È cioè lo spazio dei momenti intermedi, che si intravedono nella dinamica articolata dell’invincibile Proteo, cioè i momenti di gestione e controllo “orizzontale” dei processi spontanei. Si dica pure che ritorna qui la mia personale antica propensione a veder le lunghe derive storiche in termini “orizzontali”; ma mi piace trovare in Cingolani: “La mia convinzione è che questa volta le dinamiche profonde siano sostanzialmente orizzontali”, in quanto “sta emergendo un modello pluralistico che tende a generalizzarsi: pluralismo economico, tecnologico, politico, su scala internazionale”.

Nella mia cultura professionale questa affermazione la traduco nella convinzione che la globalizzazione sarà in futuro innervata (e implicitamente governata) da due grandi dinamiche strutturali, quella delle “filiere” di creazione di valore; e quella delle “reti” di cooperazione internazionale. Sappiamo tutti che la presenza dell’Italia nel mercato internazionale è “gestita” dalla dinamica di alcune filiere (quella enogastronomica, quella del tradizionale Made in Italy, quella della costruzione e manutenzione dei macchinari); sappiamo tutti che la recente crisi pandemica è stata fronteggiata da una filiera precisa (che va dalla ricerca avanzata alla tecnologie di trattamento, all’industria, alle istituzioni di protezione collettiva, al servizio sanitario nazionale, via via fino al singolo infermiere e al singolo volontario in ambulanza); sappiamo tutti che in ogni settore importante della dinamica sociale, dalla finanza alla formazione, è necessario far riferimento a una logica di filiera (dall’innovazione scientifica e tecnologica avanzata alla partecipazione di usa di investitori privati). Sappiamo tutti cioè che è nelle filiere (nei loro soggetti protagonisti come nelle piattaforme di convergenza e collaborazione) che respira quotidianamente la globalizzazione moderna. Come sappiamo tutti che le filiere funzionano se possono far riferimento a delle reti di cooperazione internazionale che valorizzino gli scambi fra diversi sistemi (nella sanità come nella finanza).

Ecco, se dovessimo continuare ad approfondire i temi di questo libro, dovremmo concentrare attenzione e studio proprio su queste due dimensioni orizzontali (filiere e reti internazionali) che stanno diventando essenziali per capire quel che sta avvenendo nel mondo. Con un atteggiamento positivo e realistico che è ben sintetizzato dalle conclusioni di Cingolani: “Tra le macerie della crisi più grave della storia moderna possiamo vedere che cambierà il lavoro, cambieranno le città, cambierà la domanda e, di conseguenza, l’offerta, lo sguardo lungo prenderà il posto della miopia con la quale è stata guidata spesso la società”.

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