Da Vicenza, qualche giorno fa, il presidente degli industriali di una delle province più ricche d’Italia aveva lanciato una cannonata contro la classe politica con un appello intitolato “Basta incompetenti”. Lo stesso giorno, dalle colonne del Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia metteva nero su bianco un editoriale durissimo contro l’attuale classe dirigente politica. È cosa nota che la politica non si faccia per concorsi né per titoli: il Parlamento non deve essere certamente il consesso esclusivo di accademici della Crusca. Ma qualcosa che non funziona nella selezione della classe politica, nazionale e ai massimi livelli locali, evidentemente c’è. Giuseppe De Rita, forse il massimo conoscitore dei meccanismi che regolano la società italiana, fondatore e presidente del Censis, analizza in questa intervista a FIRSTonline, il blackout che si è creato tra rappresentanza democratica e competenza necessaria per guidare la macchina pubblica della seconda potenza industriale d’Europa.
Presidente De Rita, dove ha origine questo processo di deterioramento della qualità della classe politica?
«Bisogna ragionare su un duplice fattore di analisi. Il primo è tutto interno al sistema: le classi dirigenti in larga parte non hanno saputo adeguarsi culturalmente rispetto alla crescita della complessità della società italiana. Diciamo che sono non preparate a gestire la complessità enorme che deriva dall’innovazione tecnologica, dalle sfide epocali come l’immigrazione, dal rapportarsi con gli attori sofisticati dell’economia globalizzata e multiforme. È un appunto che faccio anche a me stesso: nella mia carriera di ricercatore ho cercato di adeguarmi culturalmente al mutare delle complessità, scrivere il Piano Vanoni non era la stessa cosa di una pianificazione fatta vent’anni dopo».
La critica che viene fatta alla qualità della classe dirigente non è legata solo al titolo di studio.
«Ripeto, siamo di fronte ad una classe politica che non ce l’ha fatta di fronte alle sfide culturali della complessità. Ci porterebbe molto distanti dal tema, ma un accenno agli effetti del ’68, con la sua negazione della cultura della ricerca, del merito, del premio per chi studia, andrebbe comunque fatta».
E il secondo filone di analisi?
«Sicuramente la totale sconfitta culturale di fronte all’ondata di quel movimento che voleva abbattere le “caste”. Un’opera di distruzione a più riprese dell’establishment politico, ministeriale, parlamentare, di tutti gli organi rappresentativi dello Stato. Il corollario di mitologie sui massoni in ogni angolo, sul potere dell’Opus Dei, sui poteri forti, sui complotti, è venuto in un secondo momento. Il libro di Stella e Rizzo “La casta” è partito dai vertici ed è sceso lungo tutti i gangli della società. L’impiegato del Catasto considera casta il suo capo ufficio e dice: “Perché non posso fare io il capo anche se non ho i titoli, l’esperienza, il merito?”. Oggi, purtroppo per i giovani, la bravura non conta più. Anche per chi fa parte del cosiddetto establishment. I grandi dirigenti “beneduciani”, i vari Menichella, Mattioli o i Giordani, erano davvero i più bravi della loro generazione. L’arrivo dei grillini al potere ha condotto alla negazione del merito, allo stravolgimento dei tempi per diventare élite, dell’uno vale uno. Anche nella dimensione dei rapporti sociali è stata una tragedia».
Ma come si è arrivati ad avere parlamentari che negano lo sbarco sulla Luna, che vaneggiano di complottismi, che vogliono curare la xilella con il sapone? In sintesi: quando si sono rotti gli argini?
«Se vuole un ordine temporale diciamo all’incirca nel 2010, quando il M5S inizia la sua ascesa nelle cariche elettive. Siamo immediatamente dopo la grande crisi del sistema politico avvenuta nel 2008. Quello è lo spartiacque, in quel momento la politica e il vecchio potere collassano. L’opinione pubblica certifica in modo definitivo un giudizio fortemente negativo dell’allora classe politica, come avvenne ad inizio anni Novanta. Con l’uscita di scena di Silvio Berlusconi e l’arrivo di Mario Monti viene dato un colpo di grazia anche alla casta mediatica rappresentata dal Cavaliere. Con l’esperienza del governo tecnico di Monti avviene invece la dissoluzione della casta del merito finanziario e internazionale. Da quel momento si sono aperte le gabbie, chiunque può fare tutto e ambire a tutto. Ci sono tanti casi eclatanti, gliene dico uno vicino a noi elettori romani».
Prego.
«Un’elezione di qualche tempo fa per il collegio uninominale del Collatino, vicino al raccordo anulare. Si presentano l’ex governatrice regionale Renata Polverini, un importante avvocato d’affari e il titolare di un tabacchino. Ha vinto il tabacchino. È vero: la gente è stanca, delusa, disillusa. Ma non possiamo più dare la colpa solo alla classe dirigente».
Gli eletti, di ogni ordine e grado, da tempo si vantano di “non essere politici di professione”, come se fosse un’onta infamante. Qual è la selezione che permette di non aver dinosauri inamovibili in Parlamento e di non avere sprovveduti che dal bar di Paese passano al ministero?
«Questa frattura nella classe dirigente appare nella sua evoluzione drastica negli ultimi dieci anni, rimangono pochissimi vecchi dinosauri e ci sono i nuovi tabacchini. Nella Dc non ci si iscriveva per fare il ministro, tanto per essere chiari. Si partiva dal consiglio comunale e chi sopravviveva alla lotta politica arrivava via via nei consessi più importanti. Nelle prime due legislature in Parlamento un democristiano difficilmente si sognava un posto governativo. Oggi questo è impossibile perché non ci sono più i “contenitori” del processo e del progresso politico: non c’è Dc né Pci. Solo in quella logica, per fare solo un esempio, il bracciante Emanuele Macaluso ha la possibilità di maturare, di emergere e diventare un capo e un intellettuale del partito. Per selezionare classe politica servono processi lenti, altrimenti il merito come lo valuti?».
Superata l’antipolitica, superato l’odio per i politici, ormai siamo al dileggio, soprattutto sui social media. Come influisce questo clima di assenza totale di fiducia tra popolo ed eletti nella formazione delle élites?
«La fiducia serve a tutta la società. Ma come possiamo avere fiducia in qualcuno o in qualcosa se siamo dentro fino al collo alla cultura del “vaffa”? Io, lei, i miei nipoti, se scendiamo in strada basta un niente per mandarci a quel paese. Qui sta il vero genio di Beppe Grillo, aver portato in politica la cultura del “vaffa”. Rompere la rete della fiducia nella società crea però un vuoto pericoloso. Fa molti più danni la cultura del “vaffa” che non la lotta anticasta. Le molecole di una società complessa stanno assieme solo se c’è un substrato minimale di fiducia, chi usa il “vaffa” come modello di relazione distrugge le reti di socialità. E poi come la teniamo assieme la società?».
La restrizione numerica del corpo parlamentare potrebbe portare a una maggiore selezione della classe dirigente?
«Intanto diciamo che è una riforma di bandiera: non è stata per nulla approfondita, non è una cosa seria. Le liste bloccate sono fatte in base al volere dei segretari di partito o dei capi corrente, che probabilmente piazzeranno qualche amico in meno. Ma la qualità della classe politica non si fa certo con la verticalizzazione del processo democratico».
Sono tramontate da tempo le grandi famiglie ideologiche del Novecento e non ce ne sono molte di attrezzate per sostituirle. Gli italiani, si dice, non distinguono più la destra e la sinistra. Anche questo ha contribuito a far assomigliare i partiti ad oligarchie poco brillanti?
«In fondo, noi italiani siamo tutti sostanzialmente qualunquisti. Oggi diciamo in massa che la politica è una schifezza, chiunque la faccia. Viviamo in una società indistinta, non riusciamo nemmeno a definire le funzioni importanti che servono a tenere in piedi il Paese. Se io singolo sono un “indistinto”, non mi interessa nulla, né a destra né a sinistra. Se tutto è grigio, non c’è bianco e non c’è nero. È indifferente che si occupi del destino del Paese il tabacchino o il grande politico».