I superdazi vanno via, l’incertezza resta
Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione non è eccellente. Il tira e molla sui superdazi, infatti, ha provocato gravi danni per il sistema economico globale sottoforma di enorme aumento dell’incertezza. Il nuovo ordine internazionale che ne potrà scaturire rimarrà instabile per il modo bullesco (oltre che burlesco) con cui sarà stato determinato e per il fatto che gli Usa hanno definitivamente abdicato al ruolo di leader politico dei Paesi occidentali e hanno rivelato fragilità macroeconomiche strutturali (doppio deficit pubblico ed estero) e gravi carenze logiche nell’affrontarle.
L’indice globale dell’incertezza sulle politiche economiche è balzato a inizio 2025 ai massimi della sua rilevazione, tre volte i livelli della Grande crisi finanziaria 2007-2009 e perfino sopra il picco toccato nella pandemia. Il dato si ferma a gennaio e non occorre avere superpoteri vaticinanti per predire che ad aprile avrà fatto un nuovo grande balzo all’insù. Infatti, negli Stati Uniti in marzo era già del 90% sopra i livelli di gennaio e per arrivare a quota 1.000, cioè più del doppio che nel 2020, basta un “piccolo” ulteriore incremento del 15%.
L’incertezza è la bestia nera dei sistemi economici, perché paralizza le decisioni dei consumatori e soprattutto degli imprenditori. Infatti, è meglio sempre sapere di che morte morire (si fa per dire: auguriamo lunga vita a tutti) ed attrezzarsi di conseguenza, che rimanere a bagnomaria delle mancate decisioni altrui. La mezza retromarcia compiuta dal Signor Trump con una piroetta maldestra sui superdazi, introdotti il 2 aprile e sospesi il 9, non dissolve i dubbi che angosciano le imprese su quale sarà il punto finale di caduta. Nel frattempo, le decisioni di investimento vengono messe in stand-by e, di conseguenza, molti ordini possono essere cancellati lungo le filiere produttive, non solo di quelle che hanno come esito finale la vendita sul mercato americano. Sospendere non vuol dire cancellare, con tante scuse per l’errore compiuto.
La maldestra piroetta e gli altri danni
La piroetta è stata maldestra non tanto per le scarse doti ginniche e di danzatore di chi l’ha effettuata (ricordate la quasi staticità mentre ballava ai comizi elettorali?) ma per il modo in cui è stata annunciata e le ragioni che l’hanno forzata. È stata infatti annunciata a mercati aperti con un messaggino social, dopo aver reiterato poche ore prima che non c’era alcuna fretta di cambiare perché il Tesoro incassava dai dazi due miliardi al giorno. È stata forzata dal palesarsi del rischio di fuga dai titoli del Tesoro americano, con il balzo dei rendimenti a valori che non si vedevano da gennaio e in totale contrasto con i segnali di indebolimento presente e atteso dell’economia. In altre parole, Mr Super Trump si è spaventato (o, per meglio dire, il Segretario al Tesoro Bessent lo ha informato che era d’uopo spaventarsi).
Un altro danno alle prospettive economiche deriva dalle fibrillazioni dei mercati finanziari stessi, sia per gli investitori sia per gli attori. Per gli investitori vedere e patire il mercato borsistico più grande e spesso del mondo oscillare come un ubriaco fradicio fa perdere l’appetito per il rischio e fa scappare dalle azioni. Per gli attori è aumentato il costo del capitale e diminuita la ricchezza, con disincentivo a spendere.
Mica male per chi ha vinto le elezioni promettendo di abbassare il costo del denaro e l’inflazione, la quale dai dazi sarà invece spinta all’insù anche se permanessero nella misura più contenuta non sospesa (10% verso tutto e tutti, Cina al 125%). Tra l’altro le merci cinesi sono sì solo il 13,5% del totale che entra negli USA, ma la loro quantità è particolarmente anelastica al prezzo; infatti, la loro unicità tecnologica e qualità di fattura, sia per i prodotti finiti sia per i semilavorati, rendono molto difficile diminuirne gli acquisti se non nel medio periodo (ossia qualche anno).
Uno strumento, un obiettivo
A questo proposito, tutti i libri di testo di politica economica insegnano che uno strumento può essere utilizzato per raggiungere un solo obiettivo. Quindi, l’aumento dei dazi può servire ad aumentare le entrate del bilancio pubblico, agendo proprio attraverso l’aumento dei prezzi, a meno che gli esportatori in USA non assorbano nei margini una parte di tale aumento, che sarebbe il classico due piccioni con una fava (in inglese si dice con un sasso); ma appare una pia illusione perché i margini delle imprese esportatrici sono risicati (eccetto quelli delle Big Tech che comprano in Cina). Oppure possono ridurre il deficit con l’estero, diminuendo le importazioni, sia erodendo il potere d’acquisto dei consumatori sia incentivando le produzioni interne, in entrambi i casi grazie ai prezzi più alti; ma se si riduce l’import calano anche gli incassi statali. Queste complesse interazioni paiono sfuggire non solo a chi governa a Washington ma anche a chi vede un disegno smart dietro le misure. Il disegno sicuramente c’è, ma è lecito dubitare che sia così smart nei mezzi, se non negli stessi fini dichiarati (riportare i posti di lavoro in America).
Colpita una crescita mondiale fragile
Infine, l’impatto immediato e ultimo di quanto sta accadendo dipende in modo cruciale dallo stato di salute del sistema economico globale, nel suo insieme e nelle sue componenti geografiche e settoriali. Se fosse solida, allora potrebbe assorbire meglio il colpo; se fragile, finirebbe K.O. I dati congiunturali dell’ultimo mese pendono più verso la seconda ipotesi.
Le indicazioni dei responsabili degli acquisti (PMI) sulla produzione parlano di crescita moderata a marzo, in leggera accelerazione rispetto a febbraio, a livello globale. Tuttavia, questo debole progresso si spiega soprattutto con il recupero USA dopo la precedente fiacchezza, un recupero la cui tenuta è tutta da dimostrare perché sia le imprese che i consumatori sono diventati molto meno ottimisti, citando proprio le misure economiche adottate o ventilate come causa della sfiducia riguardo al futuro, e quindi più prudenti. Altrove il Giappone è tornato in contrazione, l’India, la Cina e l’Eurozona hanno accelerato, ma queste ultime due su ritmi blandi. Se poi dal quadro geografico passiamo a quello settoriale il quadro peggiora.
Manifatturiero più esposto ai dazi, terziario alla sfiducia: recessione globale in vista
Infatti, il manifatturiero sta tornando a mostrare segni di debolezza, sia nella produzione, di nuovo soprattutto per gli USA mentre l’output ha ricominciato a salire nell’Eurozona per la prima volta dal marzo 2023 e in Cina ha accelerato. Tuttavia, anche in Giappone è tornato contrarsi pesantemente e pure la crescita degli ordini si sta afflosciando. Ancor più lo farà quando si farà sentire l’effetto dell’accumulo di scorte in previsione dei dazi e quando questi ultimi congeleranno il commercio internazionale, fatto soprattutto di semilavorati manufatti (due terzi nel totale degli scambi di beni ex materie prime) e di prodotti industriali, piuttosto che di servizi; per esempio, sia per USA che per UE27 il terziario conta per meno del 30% dell’import di beni e servizi, e una parte di tale quota sono spese di trasporto di beni materiali.
In altre parole, aspettiamoci una forte caduta, se non un tracollo, di ordini e produzione industriale a livello mondiale nei prossimi mesi, per effetto diretto e indiretto (incertezza di cui sopra) dei dazi trumpiani. E siccome le persone saranno spaventate (e ne hanno ben donde) e tenderanno a risparmiare di più ovunque, ci saranno meno spese per viaggi, intrattenimento, happy hours e pasti fuori casa. Il rischio di avvitamento recessivo mondiale è aumentato molto.
Chi si salverà? Chi subirà meno danni?
Chi si salverà? Nessuno. Chi avrà meno danni? Chi più facilmente si può isolare da queste tempeste e chi ha più abbondanti frecce nella faretra della politica economica. Gli USA sono sicuramente più chiusi al commercio internazionale rispetto alla UE 27: la somma di import ed export di beni e servizi pesa per il 25% del PIL contro il 42% (escludendo gli scambi interni alla UE, altrimenti bisognerebbe includere quelli tra Texas e California…). La Cina è più vicina ai valori europei (37%) ma con la differenza che esporta soprattutto manufatti e importa specialmente materie prime, come d’altronde l’Europa. Tuttavia, l’80% dell’import USA è di beni manufatti, i beni più colpiti dai dazi. Infine, per i prodotti europei e cinesi il mercato statunitense è sì molto importante ma non è l’unico e ha tutto sommato una quota contenuta.
Il metro dell’apertura, della composizione e del peso del commercio con gli USA dice che i più esposti al rischio americano sono gli USA stessi (non ridere, per favore). E le frecce di politica economica a disposizione cosa suggeriscono? La meglio dotata è la Cina, con il più basso debito pubblico PIL (84% del PIL), anche se il deficit è proiettato al 7,4% del PIL a fine 2024 e con le misure adottate in marzo salirà notevolmente; e se anche per Xi vale quello che disse Keynes di Mussolini (“non si può dare l’olio di ricino al tasso di cambio”, citazione libera dal Trattato sulla riforma monetaria del 1923), certo ci sono molte più cose Pechino può fare. Il debito/Pil e il deficit/PIL negli USA sono al 121% e al 7,6%. Meglio di tutti è messa l’Eurozona: 88,1% e 3,1%, e infatti la Germania già si è mossa e darà una bella spinta; altra dovrà venire da ulteriori decisioni comunitarie.
La politica monetaria sembrerebbe avere più gradi di libertà in USA con i tassi della Fed al 4,33, contro il 2,50% della BCE e inflazione che prima dei dazi era prevista simile (2,8% contro 2,2%). Appunto, prima! Ora i dazi hanno legato le mani alla FED e i mercati lo stanno dicendo aumentando i tassi lunghi.
Inflazione su in USA e giù in tutto il resto del mondo
Già l’inflazione. Il sentiero era segnato: un raffreddamento graduale, dipendente da molte variabili e fondamentalmente dalla dinamica salariale. Così abbiamo osservato nell’andamento dei prezzi al consumo che la loro dinamica core annua a marzo è calata al 2,8% dal 3,2% in USA e al 2,4% dal 2,6% nell’Eurozona; un anno fa era al 3,8% nei primi e al 3,1% nella seconda.
Il calo violento del petrolio aiuta in questa direzione, ma l’effetto dazi è asimmetrico: spinge l’inflazione su nettamente al di là dell’Atlantico e all’ingiù nel resto del Mondo, che pure ha imposto dazi ai beni americani ma che avrà un eccesso di offerta da smaltire, e quindi prezzi in riduzione per stimolare la domanda di quei beni. Gli effetti sulle politiche monetarie sono conseguenti.
Resta che nulla sarà come prima del 2 aprile nemmeno sulla dinamica dei prezzi al consumo e se un cambiamento radicale ha da essere questo sia l’abbandono della masochistica moderazione salariale che compresso domanda interna e appiattito la dinamica della produttività in Europa a favore di politiche di crescita e innovazione: un modo molto diverso di declinare la parola competitività, che di solito viene interpretata con la riduzione dei costi.
Mercati squassati dall’incertezza
C’è il male, c’è il bene, e c’è il punto interrogativo. C’è chi guadagna sul ‘bene’, c’è chi riesce a guadagnare anche sul ‘male’, ma la zona più difficile è quella dell’incertezza. I mercati, squassati e volatili, vivono ormai alla giornata. Sì, Donald Trump, pur essendo chimicamente incapace di dire ‘ho sbagliato’, ha messo in pausa i dazi ex-Cina (ma ha rincarato la dose sulla Cina). Cosa succederà, tuttavia, dopo i 90 giorni della pausa?
L’incertezza continua, ma tassi e Borse hanno almeno acquisito una piccola certezza: i mercati – lo sapevamo ma era solo una speranza – sono capaci di piegare anche Trump. È ironico vedere che pochi giorni fa il Presidente degli Stati Uniti dichiarava che lui non guarda alla Borsa, che ci vuole in ogni caso una medicina, che non avrebbe mai cambiato politica, che i dazi erano lì per restare… E ora ha magnificato (per 24 ore) quell’effimero rimbalzo della Borsa che era dovuto solo al fatto che ha cambiato politica.
Certo, sarebbe bello se la proposta originata da quell’insolito combinato disposto – Elon Musk, Ursula von der Leyen, Giorgia Meloni – di azzerare tutti i dazi fra Usa ed Europa potesse metter fine a questa scombinata guerra doganale. Sarebbe una benedetta fuga in avanti rispetto allo spettro di una maledetta fuga all’indietro nei liberi scambi. Ma, nell’attesa che questo sogno si avveri, che cosa succede nei mercati?
La curva dei rendimenti USA è diventata molto ripida
Il grafico sulla curva dei rendimenti americana (T-Bond a 10 vs. il T-Bond a 2 anni) testimonia il grado di volatilità di quel mercato che dovrebbe essere il più liquido del mondo: i titoli lunghi sono balzati verso l’alto il 9 aprile, salvo poi – dopo il ravvedimento operoso di Trump (altrimenti detto ‘calare le braghe’) – cedere parte del rialzo. Ma la curva di rendimenti rimane ai livelli più alti dall’inizio dell’anno – e anche ben di più per l’analoga curva del T-Bond a 30 anni; segno che i mercati sono (giustamente) preoccupati del medio-lungo termine. Guardando oltre le pazzie di questi giorni, diventa chiaro come il futuro vedrà un mondo sempre più multipolare – niente più Pax Americana – e l’America sarà un Paese super-indebitato e non più neanche ‘prima economia del mondo’: la Cina sarà più grossa, anche ai cambi di mercato (ai cambi a parità di potere d’acquisto, lo è da 10 anni).
Traguardando i dati mensili, che non danno conto delle convulsioni giornaliere, c’è una qualche tendenza al rialzo negli ultimi due mesi. Una tendenza che media fra due forze opposte. Da un lato, permangono sintomi di debolezza dell’economia reale – più marcati in Europa rispetto agli Usa – che dovrebbero spingere ad abbassare i tassi, specie quando la posizione di partenza dei tassi-guida è ancora restrittiva; dall’altro lato, la lotta all’inflazione non è vinta e i dazi possono rinfocolare la dinamica dei prezzi, il che dovrebbe spingere ad alzarli o a non ridurli. Questa seconda preoccupazione sembra alleviata dalla ‘pausa’ annunciata dal volatile Presidente Usa, ma rimane all’orizzonte. Se la paura fa novanta, anche l’incertezza fa novanta (i giorni che durerà la pausa).
C’è poi una terza preoccupazione che agisce sui tassi, di qua e di là dell’Atlantico, ed è quella dei risparmiatori e degli investitori che sono chiamati a finanziare i deficit pubblici. In Europa i bilanci dovranno finanziare le accresciute spese per la difesa (e non solo). In America dovranno finanziare deficit immani, che potranno essere solo peggiorati dai tagli d’imposte nei progetti di bilancio in via di approvazione.
Tassi cinesi in discesa
Un commento a parte merita la Cina. Come si vede dal grafico, il governo cinese sta mettendo in atto una delle tante armi che ha a disposizione per sostenere l’economia: i tassi, sia a breve che a lunga, sono in discesa. L’export verso gli Usa conta per il 2,9% del Pil Cinese; se dovesse contrarsi di molto, la Cina dovrebbe usare politiche di bilancio, monetarie e valutarie per sostenere l’economia. Di spazio ce n’è poco per le politiche di bilancio: il deficit pubblico è a livelli quasi americani, anche se il peso del debito sul Pil è molto più basso di quello Usa. Ma ci sono altre munizioni nella santabarbara, dato il controllo capillare del governo sulle banche e sulle imprese di Stato. E in ogni caso, la determinazione del governo cinese (“resisteremo fino alla fine”) solletica il nazionalismo dei cinesi e li conforta nel sopportare i sacrifici.
I mercati sono stati lesti a cogliere l’epocale cambiamento nell’atteggiamento teutonico nei confronti di deficit e debiti pubblici, e hanno fatto schizzare verso l’alto i rendimenti dei Bund, salvo poi ritracciare in parte la prima nervosa reazione. Ma i rendimenti a due anni, che ‘sentono’ le decisioni sui tassi-guida della Bce, sono scesi ancora di più, e la ‘curva’ (differenza fra il Bund a 10 anni quello a 2) è a livelli record.
Lo spread dell’Italia si muove ordinatamente
I rendimenti dei titoli pubblici sono saliti negli ultimi due mesi, chi più e chi meno, in tutta l’Eurozona: l’Italia è stata particolarmente colpita, data la situazione della finanza pubblica, che faticherà di fronte alle necessità d’investimento, per la difesa e non solo. Tuttavia, gli spread si sono allargati sensibilmente solo rispetto al Bund, che è una specie di ‘bene rifugio’ in tempi feriti dall’incertezza: rispetto ai Bonos spagnoli e agli OAT francesi, gli spread si sono mossi poco.
Il dollaro ha perso il ruolo di moneta rifugio?
Nei cambi, la notizia del giorno è che sul dollaro si addensano nubi sempre più grosse, per ragioni che sono di struttura più che di congiuntura. Le esternazioni (per usare una parola neutra) di Trump hanno appannato l’immagine del biglietto verde come ‘moneta rifugio’ (vedi grafico). Dal 21 gennaio – insediamento del Presidente – a oggi il dollaro ha perso nei confronti delle ‘monete rifugio’ tradizionali, come lo yen e il franco svizzero. E ha perso più o meno nella stessa misura contro l’euro, che non era considerato come ‘moneta rifugio’. Poi, si moltiplicano le iniziative per appannare anche il ruolo del dollaro come moneta di fatturazione. I Paesi della Cina e del Sud-Est asiatico stanno perfezionando accordi per scambiarsi pagamenti e riscossioni senza passare per il dollaro. Più in là nel tempo, il solo rimedio di mercato per ridurre il deficit commerciale americano è una svalutazione – concordata o spontanea – del biglietto verde. Quando sarà chiaro che i dazi fanno (molto) più male che bene, diventerà chiaro che la sopravvalutazione del dollaro – conseguenza del suo ruolo di moneta di riserva e di fatturazione – deve cessare se il disavanzo con l’estero deve ridursi senza passare per una recessione.
Lo yuan è la moneta del Paese più colpito dai dazi e si è indebolito ma non troppo. Una discesa ulteriore è però probabile: fa parte delle ‘munizioni’ che la Cina – vedi sopra – ha a disposizione per attutire l’effetto dei dazi. Intanto, la congiunzione fra forza dell’euro e debolezza dello yuan ha spinto il cambio yuan/euro a livelli record. I produttori europei dovranno fare i conti non solo con gli sforzi cinesi per dirottare verso altri mercati del Vecchio continente quello che non riescono a vendere in Usa, ma anche con la maggiore competitività/prezzo dei prodotti Made in China.
Borse in fibrillazione e beni rifugio
I mercati azionari non riescono (giustamente) a digerire le indigeste pietanze dei dazi trumpiani, e vanno avanti (o indietro) alla giornata, in balia dell’ultimo tweet del Presidente. Il grafico mostra come, a partire da prima delle elezioni Usa di novembre scorso, Wall Street aveva salutato il risultato con netti rialzi. Ma l’euforia è durata poco. In teoria, la nuova Amministrazione doveva favorire l’America e indebolire il resto del modo, reo di aver fatto profitti sulla pelle degli Stati Uniti. Ma a oggi i mercati azionari non-Usa, se pur in affanno a causa dei dazi, hanno retto meglio rispetto alla Borsa americana.
E i beni rifugio? Dato che qualcuno ha detto (stupidamente) che anche il Bitcoin andava a diventare un bene rifugio, mette conto osservare che da quando il nuovo Presidente (tifoso del Bitcoin!) si è insediato, quella non moneta digitale ha perso un buon 20 per cento. Quello che ha conservato il suo ruolo di bene-rifugio è il metallo giallo. L’oro ha macinato nuovi record, come si conviene in un mondo rigato dai patemi e dalle fisime di Mr. Trump degli Stati Uniti d’America.
PS: queste Lancette sono state chiuse alle 22 dell’11 aprile del 2025. Il loro contenuto potrebbe rivelarsi rapidamente obsoleto nei dati e nelle valutazioni se ci fosse un moto di ravvedimento, pur travestito da vittoria, di Mr. Trump. Magari mediante una telefonata con Xi Jinping. Speriamo che ci sia, ma scaramanticamente non ci scommettiamo.