A un anno e mezzo dall’introduzione dei dazi commerciali tra Usa e Cina sono emersi diversi segnali negativi: il deficit commerciale Usa verso il mondo non è diminuito, gli scambi americani verso la Cina sono scesi sia in termini di scambi commerciali che di investimenti diretti, penalizzando in modo particolare gli agricoltori americani e le imprese coinvolte nelle catene di produzione internazionali. Viene inoltre registrata una diminuzione dei posti di lavoro in Usa, con l’economia americana che nel complesso mostra alcuni segni di rallentamento. Allo stesso tempo, nel corso del 2019 le importazioni totali cinesi sono diminuite, e gli Usa che sono scivolati al terzo posto tra i maggiori partner commerciali di Pechino, dietro a UE e Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (Asean): i flussi commerciali sono in forte calo, con le esportazioni in calo del 13% e le importazioni in calo del 21%. Tuttavia, le esportazioni complessive della Cina nel 2019 risultano in leggero aumento, facendo aumentare nuovamente l’avanzo commerciale cinese.
Alla luce di questi risultati economici, lo scorso dicembre Trump ha annunciato un accordo di prima fase con la Cina, siglato nei giorni scorsi, con l’intento di riaprire il tavolo delle trattative, cancellando l’ipotesi di tassare altri 160 miliardi di dollari di importazioni, pur mantenendo le tariffe su 360 miliardi di beni cinesi (di cui si ridurrà però dal 15% al 7,5% i dazi su 110-120 miliardi). In cambio, la Cina ha accettato di importare più beni agricoli dagli Usa, applicare protezioni più forti per la proprietà intellettuale americana, aprire i propri mercati alle istituzioni finanziarie statunitensi e impegnarsi per una maggiore trasparenza nella gestione della propria valuta. L’esito rappresenta un accordo che non risolve lo scontro commerciale ma pone fine per il momento ad una pericolosa escalation che ad agosto aveva subito un’ulteriore accelerazione con l’inserimento di Pechino nella lista dei “currency manipulator” e la minaccia di nuovi dazi americani. Si tratta, dunque, di una tregua, in attesa della “fase due”, più complessa. Le promesse cinesi non hanno, infatti, ancora toccato uno dei punti di maggiore tensione tra i due paesi: i sussidi erogati dal governo cinese alle proprie imprese per favorire le esportazioni, un punto su cui la Cina non sembra disposta a discutere. In ogni caso, l’accordo firmato il 15 gennaio è piuttosto specifico ed oneroso nei confronti di Pechino. Nei sette capitoli che lo compongono vengono elencate tutte le misure che la Cina dovrà intraprendere per “scongiurare” una ripresa dell’offensiva commerciale americana, con un “Bilateral Evaluation and Dispute Resolution Arrangement” creato allo scopo di valutare l’effettiva attuazione dell’accordo e dirimere eventuali controversie che ne potrebbero nascere.
La firma dell’accordo arriva in una fase molto delicata per la politica statunitense, con tempistiche favorevoli per il Presidente Trump in vista delle elezioni di novembre, in una fase nella quale l’economia americana inizia a dimostrare segnali di rallentamento. Nonostante una crescita prevista per il 2020 superiore del 2% e fondamentali economici incoraggianti sia per quanto riguarda l’inflazione (inferiore al 2%) che il tasso di disoccupazione (a livelli minimi del 3,5%), la Federal Reserve nel suo Beige Book indica come la crescita degli ultimi sei mesi del 2019 abbia rallentato la sua corsa. Sintomi confermati anche dall’indice Ism Pmi (United States ISM Purchasing Managers Index) che registra l’entità dell’attività manifatturiera negli Usa, sceso al di sotto delle aspettative del mercato. Anche le previsioni relative alla produzione industriale, nonostante i risultati positivi di novembre, sono piuttosto incerte: le stime riportate dall’Ispi parlano, in caso di un aumento generalizzato dei dazi del 25% sul totale degli scambi commerciali Usa-Cina, di una contrazione degli scambi bilaterali nel breve periodo del 20-30% e ad una riduzione del PIL nell’ordine dello 0,3-0,6% per gli Usa e dello 0,5-1,5% per la Cina.
A sua volta, la Cina si trova a far fronte a un’economia al ribasso il cui tasso reale di crescita al 2024 è previsto dal FMI al 5,5%. Una percentuale che contravviene allo standard di crescita fissato dal PCC nel 2014, il cosiddetto “New Normal”, che prevede un tasso di crescita annuale di almeno il 6%. Nonostante gli svantaggi, la firma dell’accordo rimane una scelta obbligata per Pechino: il fatto che si tratti di un “primo round” sottolinea quanto la Cina stia guardando alle elezioni americane del prossimo 3 novembre. Allo stesso tempo, vengono rimandati gli argomenti più spinosi come i sussidi statali e la tutela del mercato, strumenti su cui la Cina fa tradizionalmente affidamento per proteggere e rafforzare le imprese nazionali.
In questo scenario, gli scambi con Cina e Usa rappresentano un terzo dei volumi complessivi del commercio europeo (17,2% con Washington e 15,4% con Pechino). L’escalation commerciale aveva prodotto, nel corso dell’ultimo anno, una parziale diversione del commercio con i due Paesi che avevano sostituito le importazioni reciproche con quelle provenienti da paesi terzi, come l’UE. Nel 2019, le importazioni americane di prodotti cinesi colpiti da tariffe sono diminuite in media del 25%. Secondo stime UNCTAD, nel primo semestre 2019 gli Usa hanno sostituito importazioni da Pechino con 21 miliardi da altri Paesi, Europa in primis. Di questo importo, l’UE ha intercettato circa 2,7 miliardi, in particolare nel settore dei macchinari per l’industria. La conclusione dell’accordo potrebbe, quindi, ridurre progressivamente le maggiori esportazioni europee verso i due contendenti. L’impegno cinese ad acquistare prodotti americani per un valore di 200 miliardi potrebbe andare a svantaggio e in sostituzione dei prodotti europei: l’Ue soffrirebbe in particolare nel campo dei beni industriali e agricoli, dal momento che i cinesi si impegnano ad aumentare gli acquisti dagli Usa rispettivamente di 77,7 e 32 miliardi.
L’accordo potrebbe portare anche benefici per i mercati europei, qualora le promesse in materia di riforme strutturali, parte di questa prima fase dell’accordo, venissero mantenute da Pechino. Modifiche sostanziali nel campo della fine dei trasferimenti forzosi di tecnologia, una maggiore protezione della proprietà intellettuale e un aumento dell’accesso al mercato cinese dei servizi finanziari sono misure che vanno nella direzione di un livello di concorrenza più volte richiesto dalle autorità europee. Bruxelles, inoltre, trarrebbe benefici dall’allentamento delle tensioni commerciali globali che si tradurrebbe, nel medio periodo, in una maggiore crescita del volume degli scambi internazionali e, quindi, in una maggiore crescita economica. Allo stesso tempo, però, l’allentamento delle tensioni sino-americane potrebbe indurre Trump a volgere lo sguardo in direzione dell’UE e procedere all’imposizione delle già minacciate tariffe del 25% sulle auto europee, se un accordo complessivo Bruxelles non venisse raggiunto. Con notevoli danni per i produttori e per l’intera economia europea.