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Danish Compromise: cos’è il lasciapassare Bce che può mandare all’aria il risiko bancario e terremotare la finanza italiana

Imagoeconomica

Per chi non mastica il vocabolario finanziario, “The Danish Compromise” potrebbe benissimo essere il titolo di un film di spionaggio. E invece si tratta di un’agevolazione contabile da cui dipende direttamente il risiko bancario italiano attualmente in corso. Senza “compromesso danese”, infatti, potrebbero saltare tre delle principali offerte di acquisto e scambio attualmente in corso: Banco Bpm su Anima, Unicredit su Banco Bpm e Mps su Mediobanca, con conseguenze che arriverebbero per direttissima fino alle Generali. E non è un caso che, da due giorni a questa parte, da piazza Gae Aulenti a piazza Meda si rincorra un botta e risposta al calor bianco sul danish compromise e sui suoi (possibili) mancati effetti, che potrebbero essere, secondo Unicredit, talmente gravi da spingere la banca guidata da Andrea Orcel a ritirare l’offerta da 10,1 miliardi sulla Popolare di Milano. A dirimere l’intera diatriba sarà un arbitro d’eccezione: la Vigilanza Bce, a cui spetta il compito di autorizzare o meno l’applicazione della norma. 

Cos’è il Danish Compromise

Il Danish Compromise è una norma prevista dal Capital Requirements Regulation (Crr), approvato dall’Unione Europa nel 2012. Perché si chiama così? Perché all’epoca alla presidenza dell’Ue c’era la Danimarca, da qui il nome. La disciplina stabilisce che le banche del vecchio continente che detengono partecipazioni dirette in imprese assicurative possano godere di alcune agevolazioni contabili, una in particolare: la riduzione dell’assorbimento del capitale regolamentare, evitando i doppi conteggi. 

Di solito, quando un istituto bancario investe in altre attività deve infatti destinare una parte del capitale a copertura di eventuali rischi. Utilizzando il “Danish Compromise”, le banche ricevono trattamento favorevole delle partecipazioni assicurative nei requisiti patrimoniali. 

Passando dalla teoria alla pratica, se il Danish Compromise non viene applicato, la banca che ha una quota in un’impresa assicurativa deduce il valore della partecipazione dal proprio capitale ai fini del calcolo del Cet1. Con il Danish Compromise, la partecipazione non viene dedotta dal capitale, ma sul suo valore viene applicato un fattore di ponderazione. “ll vantaggio sta nel fatto che il fattore di ponderazione è un coefficiente che varia dal 370% al 250%, inferiore a quello implicito nella deduzione della partecipazione dal capitale (ad esempio se il Cet1 ratio fosse del 13%, il fattore di ponderazione equivalente sarebbe intorno al 770%)”, spiega Milano Finanza. Lo scopo della norma è quello di consentire agli istituti di credito di essere più competitivi e favorire le aggregazioni.

Chi decide se il compromesso danese debba essere applicato oppure no? La Banca centrale europea, che deve concedere una specifica autorizzazione. 

Il Danish compromise e il risiko bancario italiano

E arriviamo al risiko bancario, perché il Danish Compromise potrebbe entrare a gamba tesa sul riassetto in corso, terremotando la finanza italiana. Da lunedì Banco Bpm e Unicredit battibeccano sulla sua applicazione nell’ambito dell’offerta pubblica lanciata da Piazza Meda su Anima e che qualche giorno fa è stata oggetto di rilancio. Da un lato c’è Unicredit che si è detta pronta a rinunciare all’ops da 10,1 miliardi su Banco Bpm in caso di rilancio su Anima senza il via libera della Bce al Danish Compromise, la cui applicazione ridurrebbe di parecchio il costo della partecipazione nella società del risparmio gestito. Dall’altro c’è la banca guidata da Giuseppe Castagna, che invece, in attesa del responso delle Autorità europee, ribadisce “la propria convinzione, basata sulle previsioni regolamentari vigenti e non su calcoli probabilistici, circa l’applicabilità di tale trattamento regolamentare alla partecipazione in Anima che sarà acquisita all’esito dell’offerta”.

Ma allargando l’orizzonte si scopre che il compromesso danese non incide solo sull’opa che Banco Bpm ha lanciato su Anima, ma anche sull’ops che Unicredit ha lanciato su piazza Meda, considerando le attività di quest’ultima nella bancassurance e le partecipazioni in Vera Vita, Vera Assicurazioni e Banco Bpm Vita.

Non solo: terza grande operazione, terzo via libera atteso della Bce. Anche l’Ops di Mps su Mediobanca, che a sua volta è primo socio di Generali, ha bisogno del Danish Compromise per andare in porto, date le elevate partecipazioni detenute dalla società del Leone. 

Parlando in parole povere, senza il via libera della Bce alle varie richieste di Danish Compromise, le tre operazioni più importanti del risiko bancario italiano diventerebbero molto più onerose, rischiando de facto di saltare. A quel punto, sottolinea Mf, “l’attenzione si sposterebbe ancora di più sull’assemblea di Generali” in programma per il prossimo 8 maggio, giorno in cui è attesa una resa dei conti tra il Ceo del Leone Philippe Donnet e Mediobanca da un lato e i due soci Delfin e Caltagirone dall’altro. Il terremoto è servito. 

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Categories: Finanza e Mercati