Era nata sulla carta come il principale strumento attraverso cui i Comuni potessero esercitare la propria autonomia impositiva. È diventata, prima (con Monti), il principale strumento per far fronte all’emergenza dei conti pubblici. Ora (con Letta), l’Imu sembra essersi trasformata in un pasticcio.
Ma andiamo per gradi con una breve storia dell’Imu.
Prima versione: Imup, Imus e federalismo municipale
La prima volta che abbiamo sentito parlare di Imposta Municipale (Imu) è stato nel 2010, quando in seguito all’approvazione della legge delega che istituiva il federalismo fiscale, il governo allora in carica elaborava i primi decreti attuativi, tra cui quello che doveva riordinare in maniera graduale la fiscalità attribuita ai Comuni. Il decreto legislativo approvato a marzo del 2011, il primo atto di una lunga serie sulla fiscalità municipale, ha introdotto le due nuove imposte municipali che avrebbero dovuto finanziare il grosso delle entrate autonome dei Comuni a partire dal 2014: l’Imu principale (Imup) e l’Imu secondaria (Imus).
L’Imus avrebbe dovuto sostituire le varie imposte gravanti sull’occupazione degli spazi pubblici e l’utilizzo di beni del demanio senza presumibilmente comportare significative differenze rispetto all’assetto precedente, se non un riordino delle varie imposte e tasse sull’occupazione degli spazi pubblici soprattutto relative all’attività pubblicitaria.
L’Imup doveva invece devolvere ai Comuni i tributi sul settore immobiliare. Come inizialmente concepita, era una sorta di Ici estesa, dovendo sostituire sia l’Ici che la maggior parte delle imposte che insistono sul comparto immobiliare, ovvero l’Irpef e le addizionali sui redditi fondiari dei beni non locati. Il presupposto e la base imponibile dell’imposta sarebbero stati del tutto equivalenti alla vecchia Ici: si applicava a tutti i possessori di immobili ad eccezione dell’abitazione principale in funzione del valore catastale dell’immobile. Dall’aliquota base allo 0.76 per cento i Comuni potevano esercitare una autonomia di 0.3 punti percentuali in aumento o in diminuzione. Per gli immobili locati l’imposta era ridotta della metà e anche i Comuni stessi avrebbero avuto spazi di autonomia in termini di agevolazioni per particolari categorie di immobili.
L’Imu sperimentale dettata dall’emergenza
L’Imup però non è mai venuta alla luce. Prima della sua applicazione, il Governo Monti è intervenuto, in piena emergenza conti pubblici, anticipando al 2012 (in via sperimentale) i primi passi del federalismo municipale, introducendo la più nota Imu, solo per la parte relativa al possesso di immobili. Di fatto però l’Imu versione Monti non ha comportato nessuna particolare rivoluzione nell’imposizione sul settore immobiliare. Quello che è cambiato rispetto alla vecchia Ici sono le aliquote (l’aliquota base dell’Imu è stata mantenuta al 7.6 per mille come nel decreto originario sul federalismo municipale, contro un’aliquota media applicata con il regime Ici pari al 6.48 per mille), le percentuali di rivalutazione delle rendite catastali (che sono notevolmente aumentate per quasi tutte le categorie di immobili, tanto da incrementare il valore medio dei valori immobiliari imponibili di circa il 40 per cento), e il ripristino del prelievo sull’abitazione principale, ad aliquota agevolata del 4 per mille.
L’imposta pagata dai proprietari di immobili ha così garantito al bilancio pubblico nel 2012 un gettito più che raddoppiato rispetto alla vecchia Ici (senza prima casa): dai 9 miliardi circa del 2011 si è infatti passati a più di 22 miliardi nel 2012. Certamente il salto tra 2011 e 2012 ha fatto dell’Imu l’imposta “più odiata”, sebbene le imposte sulle case in Italia siano largamente inferiori alla media OCSE, come mostrato nel grafico allegato.
L’incremento del carico fiscale sul reddito disponibile delle famiglie proprietarie di abitazioni è stato comunque notevole, tanto che nel ventaglio di misure che potevano essere adottate per stimolare l’economia dal Governo attuale si è proprio scelto di alleggerire il prelievo sulle case.
L’ultima versione: la Service Tax
Il recente decreto varato dal Governo Letta ha infatti previsto la cancellazione della prima rata dovuta per il 2013 per l’Imu sull’abitazione principale, oltre ad altre esenzioni per particolari categorie di immobili (tra cui gli immobili destinati alla vendita, ma ancora non venduti e non locati, per offrire un sostegno al settore immobiliare in crisi).
La partita sull’Imu e in generale sull’imposizione sul settore immobiliare, nonché sui tributi che finanzieranno le casse dei Comuni quando il federalismo fiscale sarà (dovrebbe essere?) a regime, è ancora aperta. Ancora non si sa che ne sarà della seconda rata dell’Imu prima casa; la decisione è stata rimandata alla Legge di Stabilità. Ciò che si sa attualmente è che il Governo ha stanziato una somma di circa 2.5 miliardi da trasferire ai Comuni in virtù del mancato gettito derivante dalla cancellazione dell’Imu prima casa. Peccato che questa quantificazione sia stata elaborata sulla base del gettito Imu 2012, tenendo conto solo degli aumenti di aliquote deliberati dai Comuni fino alla fine del 2012. Ma dato che molti Comuni a quella data ancora non avevano approvato il bilancio di previsione per il 2013 (e il termine non è ancora scaduto, dato che è stato prorogato al 30 novembre di quest’anno) è altamente probabile che il gettito che mancherà alle casse comunali sarà più elevato. Difficile quindi sapere se il trasferimento di risorse potrà coprire in tempi rapidi l’ammanco e garantire ai sindaci la possibilità di programmare in maniera efficace ed efficiente le proprie risorse di bilancio.
E dal 2014? Le ipotesi sono ancora tutte da verificare. Il Governo ha già anticipato che dal 2014 verrà introdotta una “Service Tax”, riscossa dai Comuni, che dovrà sostituire l’attuale imposta sui servizi introdotta nel 2013 (Tares), e includere il prelievo sull’abitazione principale, che secondo la nuova logica sarà quindi legato alla fruizione di servizi indivisibili di chi occupa un’abitazione, e non più al solo possesso. La Service Tax sarà dunque suddivisa in due componenti:
– la Tari, a copertura del costo del servizio rifiuti, dovuta dagli occupanti, commisurata alla superficie e basata sul principio di “chi inquina paga”;
– la Tasi, ovvero la componente legata ai servizi indivisibili, che quindi riguarderà le abitazioni principali. Sarà però dovuta solo in parte dai proprietari, mentre un’altra parte da chi occupa fabbricati, quindi proprietari residenti e affittuari degli immobili locati.
Quale valutazione si può dare della Tasi? Al momento è ancora difficile fornirne un giudizio, mancano dettagli fondamentali per poter quantificare quanto effettivamente sarà il peso dell’imposta e come sarà distribuito il carico fiscale.
È comunque ragionevole attendersi che la nuova Service Tax determini uno spostamento del carico fiscale riferito all’abitazione principale da proprietari ad affittuari, quindi da ricchi a poveri, dato che il reddito della seconda categoria è generalmente più basso della prima. In quale misura, non è dato sapere, anche perché è possibile che questo già in parte avvenga attraverso affitti più elevati.
Vi è poi un paradosso alla base di questa impostazione, ovvero che i servizi di un Comune siano a carico di chi non vi risiede, ovvero proprietari di seconde case e affittuari: si tassa il turista e non il residente?
Un nodo da sciogliere è anche quello della base imponibile. Sembra che i Comuni potranno scegliere se calcolare la componente servizi indivisibili della Service Tax sulla base della superficie dell’immobile oppure sul valore della rendita catastale. Al di là del fatto che una revisione dei valori catastali sarebbe ormai necessaria, visto l’anacronismo di questi rispetto ai reali valori di mercato delle abitazioni, sfugge come il riferimento al valore di un immobile possa tradursi nella tassazione legata alla fruizione di servizi, come dovrebbe essere il principio ispiratore alla base della Tasi