Marchionne aveva lanciato per tempo un forte allarme sulla competitività italiana e sui rischi di deindustrializzazione che il nostro sistema stava correndo a causa della bassa produttività sia del lavoro che del totale dei fattori. Ma era stato accolto con fastidio sia dal sistema politico che dal mondo dei media, dove il segretario della Fiom Maurizio Landini urlava contro la violazione della Costituzione e la compressione dei diritti dei lavoratori. Ora il caso Elettrolux, a tre anni di distanza, rappresenta emblematicamente il baratro in cui siamo caduti per non aver voluto fare per tempo quei cambiamenti che allora sarebbero stati assai meno dolorosi per tutti.
La casa svedese di elettrodomestici, che deve fronteggiare una profonda caduta della domanda in Italia e un’agguerrita concorrenza internazionale, ha detto che i costi di produzione italiani sono troppo elevati e che quindi per poter essere competitivi occorre eliminare tutta una serie di vincoli all’utilizzo del lavoro in fabbrica e soprattutto che occorre ridurre il costo del lavoro attraverso un taglio dei salari di quasi la metà. In cambio, potrà fare degli investimenti sia sui prodotti sia sugli impianti per mantenere appetibili le produzioni degli stabilimenti italiani sui mercati.
Una ricetta ben più drastica di quella di Marchionne, il quale aveva in sostanza proposto un innalzamento della produttività del lavoro attraverso una riforma della contrattazione, spostandola dal centro alla periferia ed introducendo quindi delle forme di flessibilità e di garanzie sul pieno utilizzo degli impianti, che avrebbero comportato una riduzione del costo di produzione, pur consentendo ai lavoratori addirittura un innalzamento della loro busta paga (allora calcolato, a regime, di quasi 3mila euro l’anno).
Insomma, la maggiore produttività ottenuta dagli impianti sarebbe andata in parte all’azienda per mantenere competitivi i prezzi dei suoi prodotti e in parte ai lavoratori. E questo senza considerare le altre necessarie misure di politica economica che un Governo attento alla competitività del sistema Italia avrebbe dovuto attuare: dalla riduzione del cuneo fiscale e contributivo al miglioramento delle infrastrutture, per finire con lo snellimento burocratico, indispensabile per la vita della imprese, soprattutto per favorire l’export.
Nulla di sostanziale si è fatto negli ultimi tre anni. La riforma Fornero del mercato del lavoro non ha riguardato la contrattazione sulla quale la Confindustria e le grandi centrali sindacali rivendicano una loro esclusiva competenza, salvo modificare poco o nulla oppure firmare inutili protocolli che, delegando alle singole categorie la facoltà di concordare eventuali deroghe al contratto nazionale, di fatto rimarranno lettera morta. Il diritto del lavoro, composto da un coacervo di norme stratificatesi nel tempo, è di fatto un groviglio inestricabile che dà luogo a ricorsi giudiziari a getto continuo ai quali la magistratura dà le risposte più disparate. Il risultato è la massima incertezza del diritto, sia per le imprese sia per i lavoratori.
Molti continuano a richiedere una politica industriale basata sull’intervento dello Stato nei singoli “settori”, mentre sarebbe necessaria una politica dei “fattori” basata sugli elementi sopra citati, ai quali si deve aggiungere una normalizzazione del credito fatta attraverso un lungimirante rafforzamento delle banche ( sfidando i tanti demagoghi che urlano contro pretesi regali alle aziende di credito), ed una vera e seria politica di liberalizzazioni e di privatizzazioni ( in quest’ordine) alle quali si oppone un formidabile complesso di politici e di boiardi di Stato.
I casi Fiat ed Elettrolux sono ovviamente molto diversi tra loro. Tuttavia entrambi testimoniano dei ritardi del nostro sistema politico ed economico, che interviene solo quando le uova sono state rotte ed è ben difficile rimetterle nel guscio. Certo, una riduzione di quasi il 50% della paga di un lavoratore è inaccettabile. Ma per evitarlo bisognerà smettere di cercare una nuova toppa destinata a durare poco: occorrerà affrontare da subito i nodi di fondo che fanno del nostro Paese un territorio non attraente per le aziende italiane e internazionali.