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Dalla globalizzazione alla pandemia, ecco cosa è successo nel mondo

Per gentile concessione dell’autore e dell’editore pubblichiamo un estratto dell’introduzione del nuovo libro di Giulio Sapelli “Nella storia mondiale. Stati, mercati, guerre” che è una ricerca molto approfondita su ciò che è successo al mondo dagli anni della cosiddetta globalizzazione alla crisi pandemica mondiale di oggi

Dalla globalizzazione alla pandemia, ecco cosa è successo nel mondo

Il contenuto del libro “Nella Storia mondiale. Stati, mercati, guerre”, edito da Guerini e associati, è una ricerca Des choses cachées depuis la fondation du monde, per riprendere l’ispirazione del capolavoro di René Girard, ossia una ricerca sulle origini profonde di che cosa sia successo al mondo negli anni della cosiddetta «globalizzazione» sino a giungere alla crisi pandemica mondiale del 2020.

La mia ricerca si fonda, come tutti i miei lavori precedenti, sulla scorta dei «testi sacri» della teoria comune al «pensiero umanistico mondiale», pensiero rifiutato con sdegno isterico e ideologico dagli «imbecilli pubblicati» planetariamente: fastidio, sdegno e isteria incomprensibili se non ricorrendo alla psicoanalisi junghiana o freudiana che sia. La mia convinzione profonda è che la causa prevalente, la variabile indipendente, insomma, di tutto ciò che è successo risieda nella cultura e non solo nei landscapes simbolici.

Si tratta in primo luogo della vittoria egemonica dell’ordo-liberismo teorizzato negli anni Trenta negli Usa e negli anni Quaranta del Novecento in Germania. Se non si ricordano con lucidità, un’altra volta, quelle teorie e quelle condizioni socio-economiche che esse – in più di sessant’anni – hanno contribuito a creare nel mondo, non si può comprendere cosa succederà nel dopo-pandemia.

Infatti, se non poniamo mente a quali erano le condizioni dell’economia e delle società mondiali prima del coronavirus, non comprendiamo nulla di ciò che ci aspetta in futuro, se «la Resurrezione» non giungerà. Le fondamenta mondiali «pre-pandemia» dei sistemi di proprietà e le radici profonde delle formazioni economico-sociali sono rimaste strutturalmente le stesse sino a oggi.

Le trasformazioni politiche sono state, invece, profonde e sono di fatto culminate in tutto il mondo nell’indebolimento delle strutture statali weberiane, sostituite via via da forme estese di patrimonialismo che va dagli Stati africani, dove esso ha radici post-coloniali e territoriali e clanistiche, al modello sudamericano che ha esacerbato il neo-caciquismo descritto da Joaquín Costa nel suo capolavoro sulla vita politica spagnola, pubblicato nel 1901 ma sempre più attuale. Si va dallo spappolamento dei partiti politici in clan dominati da imprenditori politici ed economici aggregati in piccoli gruppi, al modello degli Stati a common law dove i caucus plutocratici degli affari si sono mescolati ai «quasi gruppi» locali di interesse multietnici afroamericani, wasp, neri e latini in un mosaico formidabile per varietà e libertà di espressione, sino alla poliarchia europea dominata dagli Stati indeboliti dalla sottrazione di sovranità dall’alto per le tecnostrutture ordo-liberiste dei trattati che si sono susseguiti da Maastricht e oltre.

Con tutti i «regolamenti» che ci attanagliano ben si comprende come i partiti si siano sgretolati in Europa con la sola eccezione della Germania, unitamente a un pugno di Stati scandinavi anch’essi con partiti sopravvissuti «dentro» e «attorno» a forti Stati weberiani ordo-liberisti da manuale. Lo stesso fenomeno di sgretolamento dei partiti politici storici è avvenuto in Sud America, con la dissoluzione dell’Apra in Perù, con la letterale scomparsa politico-istituzionale del desarollismo radicale in Argentina, con la decomposizione rapida dei partiti «liberali» storici colombiani (mentre la guerra civile e la lotta armata clandestina – che gode di immensi appoggi tra le popolazioni rurali – invece continuano).

Senza dimenticare ciò che è successo in Messico, dove la frantumazione dell’istituzionalismo – che aveva guidato la liberalizzazione e la distruzione del welfare si è affermata senza dare a quella storica nazione una stabilità che consenta di sconfiggere il narcotraffico e gli omicidi di massa provocati dai narcos per governare così vasti territori e minacciare lo Stato con il terrore.

Gli Usa sono nudi dinanzi agli occhi di tutti, con la profonda trasformazione delle loro classi politiche: il sistema dei partiti è, tuttavia, rimasto intatto, ma in questi ultimi anni il complesso militar-industriale – che è il motore fondamentale della potenza nordamericana – ha costretto alle corde l’arrogante prevalenza distruttrice della finanza sregolata, con le conseguenti disfunzioni nella circolazione delle élite paretiane. In definitiva, la grande trasformazione che è avvenuta nel mondo a partire da Bretton Woods pareva simile a quella che avvenne tra il Congresso di Vienna e la Prima guerra mondiale; ma nella sostanza è stata esattamente opposta.

Allora si fondò il mondo moderno e si generò il mercato regolato non dallo Stato, ma dalla haute finance e dalle big corporations, con i correttivi allo stesso mercato costituiti dai partiti politici: essi, mentre organizzavano la democrazia, come per primo capì Ostrogorski, che Gaetano Quagliariello ha fatto conoscere in Italia tanti anni orsono, costruivano un rapporto tra Stato e cittadini fondato su sistemi di welfare. Un loro ruolo sempre sottovalutato e non riconosciuto dalla stessa teoria sulla macchina partitica. Lo fecero, quel miracolo, i partiti di massa rank and file, dando vita alle basi della «società del welfare», tra le due guerre e nel corso della guerra civile europea contro l’Urss, fase della storia mondiale che segue quella ben descritta da Karl Polanyi in quel suo immenso libro che è La grande trasformazione.

Quello che accadde dopo la Seconda guerra mondiale fu complesso e per molti versi imprevedibile: per un breve arco di anni parve continuare intatti il mondo che ho evocato, mentre si ponevano, invece, le basi della sua profonda trasformazione.

Da Bretton Woods a oggi quello che è avvenuto, come ho cercato di descrivere in alcuni dei miei lavori e come due studiosi francesi hanno minuziosamente e meravigliosamente ricostruito con gli strumenti della storiografia intellettuale, è una trasformazione ancora più profonda, forse, di quella descritta da Polanyi. Sfortunatamente per l’umanità, tale trasformazione ancora si tiene in vita. Gli anni che sono intercorsi dalla fine del secondo conflitto mondiale agli anni Ottanta del Novecento, che pareva fossero – per i molti – fondativi di un nuovo ordine socialdemocratico che elevava a modello il sistema europeo di economia mista e di welfare, erano in sostanza, invece, solo il frutto caduco della crescita economica mondiale nella congiuntura della post-guerra coreana.

Negli anni Ottanta del Novecento, infatti, tutto sarebbe mutato. Mi riferisco alla «rivelazione», che dopo gli anni della crescita – dal decennio Cinquanta al decennio Settanta del Novecento – avvenne di quel nuovo liberismo economico che aveva costruito, nell’ignavia del mondo, il costrutto istituzionale europeo e mondiale fondato su una serie di trattati e sul dominio, in Europa, delle idee dell’ordo-liberismo teutonico e della scuola della regolazione francese. Era la risposta europea al neoliberismo nordamericano, che non si fondava più sul rifiuto dell’azione dello Stato, per lasciar mano libera a un mercato fantasmatico abitato da attori robinsoniani che avrebbe dovuto esistere in natura, come esisteva nell’immaginario fisiocratico e in quello della scuola austriaca in economia. Non esistendo in natura, lo Stato doveva inverarlo.

Dopo la Seconda guerra mondiale, grazie al lavoro intellettuale di gruppi di studiosi spesso neppure tra loro legati, tanto in Usa, quanto e soprattutto in Germania, si posero le basi del mondo di oggi. Fondamenta culturali, non economiche, che oggi drammaticamente rallentano e rallenteranno la fuoriuscita mondiale dalla pandemia sul piano economico, sociale e soprattutto culturale: il più importante di tutti gli altri.

Quel mondo neoliberista impedisce la «Resurrezione» dopo la tragedia pandemica, come sempre ci esorta, invece, a fare escatologicamente la «lettera» di San Paolo ai Romani. Ciò di cui oggi siamo prigionieri sta scritto nelle opere non di grandi pensatori, di immensi intellettuali, ma di severi accademici di grande onestà e di sobrio stile di vita che non raggiungono affatto le vette né della scienza né della gloria filosofale: funzionari del «capitalismo regolato», sorretto dallo Stato e dalla legge e da ordinamenti di fatto quando sia le leggi sia le Costituzioni tacciono.

Élite non legittimate governano il mondo.

Vinsero coloro che propugnavano e propugnano, ieri come oggi, il ruolo dello Stato non solo per imporre l’economia di mercato, ma per imporre altresì una minuta regolamentazione della stessa, attraverso la creazione di istituzioni internazionali tutte ispirate, anche nel loro vestire tecnocratico, all’utopia della pace universale propria dell’Onu e prima ancora al Patto Briand-Kellogg, del 1928. Solo che Fmi, Ocde, Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale della Sanità e, infine, i Trattati europei, via via succedutisi, non sono i fautori della pace universale. Ciò che accadde a Parigi, nel 1928, nel Salon de l’Horologe del Quai d’Orsay, là dove si firmò il Patto Briand-Kellogg, e dove si era già tenuta la prima riunione della Società delle Nazioni nel 1920, non era che l’anticipazione della trasformazione via via più compulsiva del governo del mondo avvenuta con sempre maggiore intensità dal finire del decennio Settanta del Novecento, con l’avvento della finanza sregolata e delle famiglie nordamericane da essa nutrite e portate al potere. Un potere che sarà non più fondato sul principio del realismo dettato da Vegezio: «Igitur qui desiderat pacem, praeparet bellum», ma, come discorrerò in questo libro, al contrario, sui principi dell’umanitarismo neocon, sulle orme tutte ideologiche di Leo Strauss. La guerra unipolarista, come l’ha definita nelle sue opere fondamentali David Calleo, velata da un’ideologia sempre più oppressiva e fondata sulla falsità dei landscapes della political correctness, diventerà il nuovo credo universale degli «Internationalists».

Essi sono, inoltre e conseguentemente, i propugnatori perennemente attivi del governo tecnocratico non eletto, delegato. L’Europa, esempio tragico e preclaro dell’inveramento di questa avventura dello spirito, l’Europa sottoposta al controllo dei Trattati non ha una Costituzione, ma solo dei rapporti di potenza nazionali schermati dai regolamenti, ignoti ai più e in primo luogo a coloro che dovrebbero farli agire attraverso le democrazie nazionali. Esse, le democrazie nazionali, ancora rimangono in piedi, ma senza più forza vitale.

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