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Dal mattone a Internet, tutti i guai della Borsa cinese

I Big della finanza, da Soros a Woods prendono le distanze dopo il cambio di passo del presidente Xi Jinping. Ant, Tencent, Didi sono finiti nel mirino. Ora il tracollo di Evergrande. La Cina tornerà comunista o darà voce ai ceti medi?

Dal mattone a Internet, tutti i guai della Borsa cinese

“Alla larga dalla Cina. Almeno per un po’”. Cathie Woods, la mitica responsabile di Ark Investment, che sta ai gestori tradizionali come Elon Musk ai boss dell’auto, si è detta d’accordo con George Soros, tradizionale guru massimo del mondo della finanza che ha appena giudicato “un tragico errore” la scelta di Black Rock di inaugurare un fondo di investimento rivolto al pubblico cinese che, peraltro, ha risposto con entusiasmo: 111 mila sottoscrittori in un solo giorno. Intanto, in giro per il mondo fioccano i prodotti legati alla seconda economia del pianeta. Vontobel, ad esempio, lancia in questi giorni un certificate a gestione attiva che permette per la prima volta di entrare nel mercato delle A share cinesi attraverso il New vision Index che comprende numerose aziende leader nel Celeste Impero che possiedono, recita la presentazione, “solidi fondamentali e che, nonostante gli interventi normativi del governo e l’alta volatilità del mercato, potrebbero trarre giovamento dal quattordicesimo piano quinquennale varato di recente”.

Insomma, vista dal mondo del risparmio, la Cina appare quale la grande incognita, ovvero la buccia di banana su cui può scivolare l’edificio della finanza mondiale. Oppure il gigante su cui scommettere ancora, confidando che le recenti iniziative anti-mercato promosse dal presidente Xi in nome del benessere comune non siano destinate a compromettere la corsa di quella che è comunque la seconda economia del pianeta, la fabbrica delle cose di cui il pianeta non può fare a meno. Come, del resto, continua ad essere convinta anche Cathie Wooods, alla guida di quell’Ark Investment che ha avuto un ruolo di primo piano nella scoperta e nella valorizzazione dei gioielli Internet cinesi. “Non intendo abbandonare la Cina – spiega – perché lì ci sono comunque troppi talenti e troppa voglia di crescere per essere represse. Ma siamo di fronte ad una revisione dei valori guidata dalla politica che può provocare grosse sorprese”.  

La cronaca offre molti spunti in questa direzione. Negli ultimi mesi, dopo il brusco stop alla quotazione di Ant group, la leva finanziaria di Alibaba, si sono moltiplicate le mosse anti-profitto. C’è stato un brusco giro di vite ai danni di Didi, l’Uber cinese punito per il mancato rispetto della privacy.  Le scuole private, un business miliardario, sono state brutalmente ridimensionate. E lo stesso sta capitando ai colossi del gaming, colpevoli di diffondere “l’oppio della gioventù” cui sono concesse solo tre ore di videogiochi alla settimana. 

E così, nel tentativo di sfuggire alla mannaia del presidente Xi, le società si stanno prestando a comportamenti indigesti, quasi contro natura per i Big della Borsa Usa. Piduoduo, colosso dell’e-commerce, ha annunciato giganteschi investimenti nel commercio fisico, a sostegno del piccolo commercio.

“E’ una tassa – ha detto Woods – pagata per compiacere le autorità”. Così come i 15 miliardi di dollari (due terzi degli utili) versati da Tencent ed Alibaba in “attività per il bene comune” o gli investimenti di J.D. Flowers nella logistica delle città di secondo e terzo livello, quelle dimenticate dallo sviluppo degli ultimi anni. 

Tutte iniziative a bassissima redditività che fanno rabbrividire uomini e donne di Wall Street cresciuti a pane e ricerca del profitto. Di qui il dubbio: si tratta di una svolta definitiva oppure, una volta superate le insidie del prossimo Congresso del partito, si stabiliranno nuove priorità? Ovvero, la Cina, che per vent’anni è stata la terra del liberismo più sfrenato, tornerà comunista oppure batte alle porte una società più egualitaria, destinata a dar voce ai ceti medi?

E’ questa una delle domande che circolano a Wall Street assieme ad un altro quesito, più inquietante e drammatico. Si consuma in questi giorni, infatti, il tracollo di Evergrande, il colosso immobiliare guidato da quello che, fino ad un anno fa, era l’uomo più ricco di Cina: Hui Ka Yan, accreditato di un patrimonio di 34 miliardi di dollari, grand patron del calcio cinese. Ma si trattava di un gigante dai piedi d’argilla, cresciuto attraverso una formula di vendita basata sugli anticipi. Le famiglie pagavano per la casa l’intera somma dovuta al momento della prenotazione, ancor prima dell’inizio dei lavori. In questo modo, grazie alla leva finanziaria, Evergrande ha potuto per anni moltiplicare il giro d’affari ed estendere la propria attività anche in altri business, a partire dalla speculazione in Borsa. Una start up dell’auto elettrica lanciata con i soldi in arrivo dai risparmiatori, ad esempio, ha raggiunto una quotazione miliardaria ancor prima di aver prodotto una sola vettura. 

Il sistema, ahimè, è andato in crisi quando le aziende di credito, su invito della banca centrale, hanno voluto un anno fa vederci chiaro nel castello di carte costruito da Evergrande, a suon di debiti nei confronti dei fornitori. 

Di qui l’avvio di una crisi che sembra arrivata al capolinea: Evergrande accusa circa 100 miliardi di debiti e si trova nell’impossibilità di completare 778 progetti immobiliari in 223 città. A fronte di soldi già versati da migliaia di famiglie che si sono indebitate per pagare la casa. Un disastro che ha già contagiato la concorrenza, che adotta gli stessi metodi, ed il mercato delle obbligazioni ove i bond di Evergrande trattano al 30 per cento del nominale. Sopravvivrà il sistema a questo crack?  Il salasso sarà senz’altro pesante, visto che l’immobiliare rappresenta il 38% circa del pil del Drago.  Ed è questa la mina che turba i sonni di Wall Street. Oltre, naturalmente, a quelli di Xi. 

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