È andata così, forse. Il petrolio era da tempo strutturalmente debole. Stava a 100 dollari perché il mercato spot, quello delle transazioni fisiche per consegna immediata, era ancora in equilibrio. Non c’erano, e non ci sono nemmeno adesso, quantità rilevanti di offerta invenduta. Non c’era, cioè, un accumulo abnorme di greggio nei magazzini di Singapore, Rotterdam o Houston. Quello che c’era, e ora c’è un po’ meno, era una quantità eccezionalmente elevata di petrolio che si preannunciava in arrivo per i prossimi mesi e anni. Lo shale oil americano e canadese in continua accelerazione, il Kurdistan diventato padrone delle sue risorse, la Libia che riprende a produrre, l’Iraq che galleggia sul greggio (nonostante l’Isis, che in ogni caso si finanzia con il petrolio delle zone che controlla e quindi produce più che può). Di poco più distanti, il petrolio e il gas delle acque profonde del Golfo di Guinea e al largo del Brasile e della costa orientale africana, una produzione potenziale molto ampia. E poi il Messico che riapre ai privati ed è pronto ad aumentare la sua produzione. E l’Argentina. E l’Iran a un passo dalla revoca delle sanzioni.
E, sullo sfondo, l’Artico russo e la Groenlandia. E in più la concorrenza crescente del carbone, talmente abbondante che molti paesi, l’America tra questi, ne boicottano in tutti i modi la crescita. Quella del gas naturale, sempre più disponibile non solo negli Stati Uniti ma anche in Russia e in Australia. Quella delle rinnovabili, passate di moda ideologicamente ma comunque in espansione. E perfino quella del nucleare dalle nove vite, in via di clamoroso rilancio in Giappone e in forte espansione in Cina, in India e nella stessa Arabia Saudita. I teorici del Peak Oil, che ebbero il loro ultimo momento di gloria nel 2008, non avevano sbagliato anno nella loro previsione di una crisi energetica incombente e fatale per la nostra civiltà. Avevano probabilmente sbagliato secolo. Per non parlare della domanda. Sempre in crescita nei paesi emergenti, certo, ma stabilizzata e in strutturale declino in Europa e in America. Meglio agire subito, deve avere pensato l’Arabia Saudita. Meglio buttare giù violentemente il prezzo adesso, prima che sia troppo tardi. Meglio convincere tutti che buona parte degli investimenti programmati nell’energia per i prossimi anni si riveleranno fallimentari o comunque antieconomici. Tagliate i vostri programmi finché siete in tempo. Liquidate le vostre società che estraggono gas o petrolio, restituite il capitale agli azionisti o dedicatevi ad altre attività. Questo shock, accolto all’inizio con incredulità e sufficienza da molti produttori, ha dovuto essere violento e dovrà essere prolungato per risultare convincente.
Finché ci sarà, come c’è ancora, l’idea che i prezzi del greggio si riprenderanno presto, nessuno cancellerà i suoi progetti (e la ripresa dei prezzi sarà solo temporanea). Ad accelerare la decisione saudita ci sono state anche considerazioni strategiche di natura geopolitica. La casa di Saud è consapevole della sua fragilità e vive nel costante terrore di essere estromessa dal potere da un militare nasserista, qaidista o legato alla Fratellanza Musulmana o all’Isis. Teme anche rivolte fomentate dall’Iran dei suoi cittadini sciiti. Il caos yemenita è del resto un monito costante per Riyadh. L’idea di un’America troppo autosufficiente nell’energia e quindi sempre più indifferente ai destini del Medio Oriente (e sempre più vicina all’Iran) proprio nel momento in cui l’Isis consolida il suo potere e pianifica di espanderlo verso sud è ancora più preoccupante della debolezza strutturale del greggio. Visti dalla Casa Bianca, il panico saudita e il crollo del greggio sono stati vissuti come un’opportunità da sfruttare. Da una parte la possibilità di infliggere un colpo durissimo alla Russia, di tenersi definitivamente l’Ucraina, di eliminare il chavismo dal Venezuela e dall’America Latina, di ammorbidire ulteriormente l’Iran, di confermarsi iperpotenza, di chiudere la presidenza Obama con la benzina a metà prezzo e una ripresa dei consumi e della fiducia.
Dall’altra, come prezzo da pagare, un rallentamento dell’espansione nell’estrazione di gas e petrolio non convenzionali (e un altro colpo al carbone) negli Stati Uniti. Rallentamento che va a colpire solo stati repubblicani e avvantaggia, con il gasolio da riscaldamento a basso prezzo, soprattutto stati democratici. Rallentamento che comunque non compromette l’espansione inarrestabile del settore energetico americano. La Russia è la grande vittima di quello che sta accadendo. L’America, nei giorni scorsi, ha accarezzato l’idea di fare saltare Putin e di fare tornare la Russia ai tempi di Eltsin, quando era inoffensiva e in bancarotta. Putin ha agito in modo razionale, arretrando significativamente ma tracciando una linea da non superare. Senza troppo clamore ha congelato la situazione militare in Ucraina e fatto arretrare le forze filorusse. Sul piano più importante, quello politico, ha cercato di presentare la Russia non come un antagonista dell’Occidente ma come un mediatore. Non vogliamo, ha detto Lavrov a Kerry, essere per forza un alleato della Siria, dell’Iran, di Hizbullah e del Venezuela, vogliamo solo essere un mediatore tra questi e gli Stati Uniti.
Anche sull’Ucraina ci proponiamo in questo ruolo e, dopo la Crimea, non vogliamo annettere più niente. Chiediamo solo che la Nato non entri nel paese e un po’ di autonomia per i russofoni. D’incanto la pressione occidentale si è arrestata. La campagna sul default russo imminente e sulla disperata e controproducente difesa del rublo ècessata. Putin si lecca le ferite ma è ancora in piedi. Spingere la Russia nel precipizio, per l’Occidente, avrebbe significato un’onda d’urto di ritorno fatta di vero default russo e recessione europea. Ancora peggio, al posto di Putin sarebbe potuto arrivare un nazionalista o un militare pronto a sfoggiare, nella disperazione, il suo arsenale nucleare. Natale tranquillo, dunque, con l’ulteriore conforto, per i mercati, di un buffo e aggrovigliato comunicato del Fomc che si sforza di non dire nulla di nuovo ma lo fa con un tono gentile e premuroso. Terremo le mani libere, è il senso, ma sappiate che siamo sempre con voi. Ci si stava cominciando a preoccupare per la Grecia, ma l’arrivo della crisi russa ha ridimensionato, agli occhi dei mercati, il previsto flop di Samarasnella prima votazione per il presidente della repubblica. Per ora si fa festa. Il 29 dicembre, il giorno dell’ultima e decisiva votazione greca, appare lontano.
L’Europa sta scendendo in campo con grande pesantezza per spaventare gli elettori greci. Non vi faremo nessuno sconto, lasceremo fallire le vostre banche, perderete ivostri depositi come è successo a Cipro. E sarete anche isolati, nessuno piangerà per voi, Italia e Francia non faranno asse con Tsipras. L’Europa ha rinunciato a farsi amare e punta al farsi temere, cosa che spesso funziona di più. Sul Qe europeo, l’opposizione di Weidmann si fa sempre più stizzita e sfiora l’isteria. Non va presa alla lettera, ma rende più probabile, in gennaio, un Qe composto da corporate bond che rinvii a marzo la parte sui governativi. Il 2015 si preannuncia movimentato, ma non così tanto da rovinare ulteriormente l’atmosfera di fine anno.