Quando i mercati sono volatili le ragioni possono essere tante, ma due sono più frequenti. La prima (soggettiva) è uno sbilanciamento di posizioni che si verifica quando tutti si sonoconvertiti all’ottimismo o al pessimismo e hanno riempito i portafogli di troppo rischio (o troppo poco). In questo caso poche notizie di segno contrario aquello del consenso possono mettere in moto una reazione violenta.
La seconda ragione più frequente (oggettiva) è una realtà esterna contraddittoria e difficile da decifrare che manda segnali forti e divergenti e ispira narrazioni a tinte forti, positive e negative, in competizione tra loro. La caduta delle borse a cavallo tra anno vecchio e anno nuovo ha avuto un po’ dell’una e un po’ dell’altra ragione. Il posizionamento (la ragione soggettiva) era infatti molto sbilanciato al rialzo. Una fine d’anno spumeggiante è del resto considerata dai mercati una specie di diritto acquisito, come il sabato festivo, cui deve seguire un gennaio altrettanto brillante, intoccabile come la domenica.
Nessun gestore vuole perdersi una performance positiva considerata così facile. È infatti un evento molto raro che questa consuetudine venga interrotta. Successe nel 2008, che si aprì con un ribasso di pessimo auspicio e si rivelò più tardi il disastro che sappiamo. Perfino il 2008, tuttavia, regalò un discreto recupero negli ultimi giorni dell’anno. Il 2009 fu l’ultimo anno ad aprire male e il mercato scese fino all’inizio di marzo.
Questi ricordi infausti, ancora perfettamente impressi nella memoria, hanno ispirato una lettura particolarmente negativa del ribasso delle scorse due settimane, visto come prodromo inquietante di un crash generale in rapido avvicinamento. Non ci sembra proprio il caso, con gli elementi di analisi a disposizione in questo momento, di spingerci a tanto. Il mercato aveva superato la paura di Ebola in ottobre, quella del crollo russo a metà dicembre e supererà anche quella di una Grecia ribelle alla Troika. Il recupero prenatalizio aveva però assunto proporzioni eccessive e, da un certo punto in avanti, si era alimentato della sola forza d’inerzia e del senso di invulnerabilità per la fine d’anno solitamente propizia. L’arretramento su posizioni più difendibili va dunque letto come positivo. Rimette in linea le aspettative e riporta su livelli più equilibrate le quotazioni.
La Grecia, di per sé, non ci sembra un problema così grave. Il debito greco verso i privati è ormai modesto e nessuno lo sta rimettendo in discussione. Il vero grande debito è verso l’Europa e tutti sanno che è praticamente irredimibile. Formalmente c’è una scadenza, ma è già scritto nei fatti che verrà periodicamente rinviata fino alla fine dei tempi. Quanto al tasso d’interesse, è già stato abbassato più volte e verrà nuovamente rinegoziato fino a tendere a zero. La Germania lo sa benissimo ma vuole, in cambio, che vengano salvate le apparenze.
Il debitore greco deve fare qualche riforma o almeno proclamare di volerla fare. In ogni caso deve essere educato e rispettoso. Tsipras, dal canto suo, cerca i voti presentandosi come il ribelle che coagulerà intorno a sé una nuova Europa di segno opposto rispetto a quella tedesca. Alla fine, se vincerà, non coalizzerà nulla e sfonderà la porta già semi aperta della rinegoziazione del debito a condizione che abbassi i toni della retorica contro le riforme chieste dalla Troika. La Grecia resterà nell’euro (perché rinunciare ai cospicui aiuti dell’Europa?) e continuerà a vivacchiare. Non sprofonderà oltre e non si risolleverà. La Grecia ci terrà dunque occupati per qualche settimana, esporrà ancora di più il clima da separati in casa che si respira da tempo nell’Eurozona ma non ci infliggerà danni minimamente paragonabili a quelli del 2011 e 2012.
Il mondo, del resto, ha problemi più seri ed è su questi che i mercati stanno riflettendo. Anche qui, però, non bisogna esagerare. E soprattutto bisogna distinguere i problemi apparenti da quelli reali. Sul petrolio, ad esempio, il problema non è la debolezza della domanda globale (che, sia pure lentamente, continua a crescere). Chi dice che il crollo del greggio evidenzia una qualche colossale debolezza nascosta dell’economia globale dice il falso. Il mondo non scoppia certo di salute, ma non sta implodendo come nel 2008.
Anche la tesi per cui il petrolio ci conduce diritti verso la deflazione cosmica è eccessiva e sbagliata. Dovremmo, una volta per tutte, decidere se vale l’inflazione generale o solo quella che esclude il petrolio e le derrate agricole. La Fed gioca regolarmente sull’ambiguità, scegliendo l’inflazione volta per volta più bassa. La Bundesbank fa altrettanto, scegliendo volta per volta l’inflazione più alta. In realtà tutti sanno che l’inflazione su cui impostare la politica monetaria è la seconda. Il petrolio che scende, quindi, non dovrebbe essere additato come colpevole di guai particolari. La deflazione da offerta, del resto, è riconosciuta da tutti come positiva. Nessuno si è mai stracciato le vesti per i continui ribassi dei prezzi dei semiconduttori o della nuvola informatica.
Il problema del petrolio è in realtà da un’altra parte. Il trilione e mezzo annuale (ai prezzi attuali) che si trasferirà dalle casse dei produttori a quelle dei consumatori non potrà non creare problemi ai produttori. Le crisi finanziarie, in questi casi, non arrivano subito, ma arrivano quasi sempre. E non parliamo solo dei soliti noti (Russia, Venezuela, Iran) ma anche del Texas e delle sue banche, che in circostanze analoghe, negli anni Ottanta e Novanta, fallirono a centinaia. E parliamo anche degli utili per azione dell’SP 500, che verranno penalizzati dal crollo dei profitti nel settore dell’energia prima di essere premiati dall’aumento degli utili nell’auto e nei beni di consumo.
Ci sono poi l’Europa e il Giappone, che pur svalutando aggressivamente non sono ancora riusciti a rilanciare la crescita in modo sostenibile. E c’è la Cina, che fa sempre più fatica a trovare motori di sviluppo. Perfino l’America, che ci ha regalato un 5 per cento di crescita nel terzo trimestre, mostra qualche segno di perdita di slancio. Tutto questo non basta però a sostenere che le cose stanno volgendo al peggio. Non è così. L’Europa, alla fine, si produrrà in un pallido recupero ciclico. La Cina terrà faticosamente in piedi la sua crescita. L’America manterrà la sua grande forza strutturale è avrà, con il nuovo Congresso, meno venti contrari.
Meno nuove regole, meno nuove tasse, meno nuove norme che scoraggiano le banche dall’erogare mutui. Per quello che si può capire ora, il 2015 potrebbe anche essere un anno di finti movimenti su borse e tassi. Stare in borsa, a conti fatti, potrebbe anche rendere poco o perfino nulla. Con il cash,tuttavia, avremo la certezza assoluta del rendimento zero. Con la borsa avremo ampie (ma non drammatiche) oscillazioni e grandi rotazioni tra i settori. Il settore energetico, per esempio, continuerà a non essere interessante ancora per qualche mese, ma nella seconda parte dell’anno potrà offrire spunti molto consistenti. Navigare necesse est, disse Pompeo. Negli anni scorsi è bastato stare seduti su bond e azioni per guadagnare. Nel 2015 bisognerà navigare in mare aperto. Il mare sarà mosso, ma per il momento non è il caso di parlare di tempeste.