Proviamo a lanciare una provocazione. Che cosa ci sarebbe di male, per i prossimi due anni, a tenere il portafoglio al 100 per cento in dollari? Che rischio si correrebbe mai a rovesciare completamente l’impostazione tradizionale europea, che consiste nel coprire il rischio dollaro per la parte di portafoglio investita in America, e a coprire invece l’euro per la parte investita in Europa? La prima obiezione è che non si deve mai prendere un rischio sull’intera posizione. L’Europa è però piena di portafogli che contengono solo euro e nessuno si sente particolarmente nervoso per questo.
Già, si dirà, ma se si fa la spesa in euro e se si ha in mente di comperare una casa in euro, avere dollari è sicuramente rischioso. Giusto. Si tengano dunque da parte gli euro per la spesa al supermercato e quelli per la casa, se si ha davvero intenzione di comprarla. Ma il resto? La seconda obiezione è che l’Eurozona è un’area in surplus delle partite correnti, mentre l’America è in deficit. I manuali insegnano che chi è in surplus rivaluta e chi è in disavanzo svaluta. Perché dunque comprare la divisa di un paese in deficit?
Qui la prima osservazione che viene in mente è che l’Europa, nel secondo dopoguerra, è sempre stata in surplus, mentre l’America è sempre stata in disavanzo. Keynes disegnò Bretton Woods nel 1944 agganciando tutti al dollaro, che a sua volta si legava all’oro. Era una variazione sottile ma rilevante rispetto al Gold Standard che era stato in vigore fino al 1934, dove tutti erano agganciati direttamente all’oro. Keynes mise in mezzo il dollaro per permettere all’America di barare al gioco e finanziare il suo deficit stampando ogni anno una certa quantità di nuovi dollari. L’imbroglio era dunque voluto ed era anche benefico. Comprando dall’estero più di quello che poteva permettersi secondo le regole classiche, l’America dava un mercato di sbocco alle esportazioni europee. Bretton Woods ha avuto alti e bassi. Quando l’America ha abusato della sua facoltà di stampare dollari, come nel 1971, il sistema è andato in crisi, salvo tornare in vita con l’Asia, in modo ufficioso e flessibile, dopo la crisi del 1997.
Settanta anni di disavanzi con l’estero hanno ovviamente indebolito il dollaro, ma meno di quanto si potrebbe pensare. L’America ha infatti usato i soldi che le sono stati prestati nel tempo per comprare attività reali all’estero che si sono sistematicamente apprezzate. In questo modo, lungi dall’impoverirsi, è riuscita a vivere al di sopra delle sue possibilità e ad arricchirsi nello stesso tempo. Con buona pace dei moralisti. In ogni caso, in questi settant’anni, il dollaro ha avuto anche cicli rialzisti di notevole durata e, in alcuni casi, di notevoli proporzioni. È vero, l’America non ha mai avuto il culto del dollaro forte e ha tradizionalmente preferito mantenerlo debole, ma ha anche dimostrato di tollerare senza troppi problemi i cicli di rialzo.
Oggi abbiamo un’America che dista ormai pochi mesi dalla piena occupazione, mentre tre quarti d’Europa, in stagnazione, non hanno nessuna prospettiva realistica di riassorbire in tempi brevi e medi le decine di milioni di disoccupati creati dalla Grande Recessione. Il risultato di questa divergenza è già evidente nell’andamento dell’inflazione, stabile sui minimi in Europa e in decisa ripresa in America. L’inizio di un ciclo di rialzo dei tassi, negli Stati Uniti, è solo questione di tempo (da 6 a 12 mesi). In Europa, come in Giappone, avremo tassi a zero a perdita d’occhio.
In un mondo tanto affamato di rendimento da comprarsi i bond appena emessi dalla Giamaica (un paese in default 14 volte negli ultimi trent’anni), un differenziale di tassi tra Europa e America in costante crescita da qui al 2017 non passerà inosservato.Ci sono poi altri tre fattori che dovrebbero sostenere il dollaro rispetto all’euro. Il primo è la possibilità concreta che l’inizio di un ciclo di rialzo dei tassi metta sotto pressione gli spread sul debito italiano e francese. Il secondo è che la Bce, per prevenire il rialzo degli spread, vari a fine anno un programma di Quantitative easing.
Il terzo fattore, che si tende spesso a dimenticare, è che il dollaro è ormai una petrovaluta. Nell’oceano dell’economia americana il vasto mare dei fossili non convenzionali che stanno entrando in produzione non è visibile come meriterebbe, ma ha già creato due milioni di posti di lavoro dopo la Grande Recessione e altrettanti ne genererà di qui a fine decennio. Le importazioni americane di fossili sono in caduta libera e il disavanzo delle partite correnti va nella stessa direzione. Era sopra il 7 per cento nel decennio scorso, è stato del 2.4 nel 2013 e scenderà all’1.4 fra due anni.
Come capita ai paesi che scoppiano di salute (quanto meno in termini relativi) l’America si trova davanti a un bivio. O rivaluta il cambio nominale oppure pratica una rivalutazione interna accettando un’inflazione più alta rispetto a quella degli altri paesi (la strada, per inciso, che sta seguendo la Germania nei nostri confronti, purtroppo a passo di lumaca). La nostra scommessa è che l’America sceglierà una via mediana, con una modesta rivalutazione da una parte e più inflazione dall’altra. Il cambio con l’euro potrebbe quindi raggiungere 1.30 per la fine dell’anno e proseguire il cammino nel 2015 in caso di Quantitative easing europeo. Ricordiamo del resto che il Fondo Monetario ha ripetutamente indicato in un range compreso tra 1.25 e 1.35 il cambio d’equilibrio di lungo periodo tra euro e dollaro.
In pratica, non è detto che stare in dollari faccia diventare molto ricchi (anche se stare in una valuta che si apprezza e che ha tassi più alti può fare nel tempo una certa differenza). D’altra parte, un recupero dell’euro in queste condizioni farebbe molto male all’Europa e, alla fine, a tutti quanti. Venendo al breve termine, l’ultimo dato sull’inflazione americana, più basso del precedente, sdrammatizza, almeno per qualche settimana, le preoccupazioni sulla lunghezza della vita residua del ciclo economico che erano andate emergendo tra molti economisti. Borse e bond ne traggono naturalmente beneficio.