Uscire o restare all’interno delle mura dell’Eurozona? In Germania l’interrogativo si insinuava da mesi negli ambienti dell’establishment politico e finanziario senza tuttavia riuscire a trovare spazio nelle discussioni pubbliche più accreditate. Sinora le grandi imprese, che con l’euro hanno approfittato del cambio favorevole rosicchiando quote via via sempre maggiori di export, si erano mantenute molto prudenti, approvando senza strappi, ma anche senza particolare entusiasmo, la linea della signora Merkel. Gli appelli per una fuoriuscita dalla moneta unica erano venuti soltanto da Hans-Olaf Henkel, l’ex presidente della BDI (la Confindustria tedesca), reinventatosi di recente leader di un movimento euroscettico, in Germania ancora soltanto serpeggiante.
Qualche giorno fa è però uscito allo scoperto l’amministratore delegato dell’influente gruppo chimico Linde Group, tal Wolfgang Reitzle. Secondo Reitzle, «non è vero che l’euro andrebbe salvato ad ogni costo. Se la Germania non dovesse riuscire a mettere disciplina nel bilancio dei paesi in crisi, dovrebbe uscire dall’Eurozona». Parole che hanno lasciato stupefatti gli osservatori economici, se si pensa che a parlare è stato il capo di uno dei trenta colossi tedeschi quotati all’indice DAX di Francoforte.
Ma qual è il tasso di consenso che una simile tesi ha tra gli imprenditori tedeschi? Stando alle repliche riportate il giorno successivo dal quotidiano economico Handelsblatt, si direbbe molto basso. «La stragrande maggioranza delle imprese tedesche vuole l’euro», ha scandito Mario Ohoven, presidente dell’associazione delle PMI (Mittelstand), i cui manufatti sono indirizzati per circa il 60% entro i confini della zona Euro. Reitzle si dice tuttavia convinto che dopo un primo periodo di difficoltà, fatto di disoccupazione e parziale crollo dell’export, la Germania potrebbe tornare a correre entro cinque anni.
Non ne è convinto Michael Hüther, direttore dell’Institut der deutschen Wirtschaft, istituto di ricerca economica vicino alla potente associazione delle industrie metallurgiche ed elettrotecniche, Gesamtmetall: «Si avrebbe una immediata rivalutazione della nuova moneta con conseguenze drammatiche per le fasce di occupazione che dipendono dall’export». Parole che trovano d’accordo anche il capo delle industre chimiche tedesche, di cui anche il gruppo Linde fa parte: «La valuta e il mercato comune sono un fattore indispensabile per il benessere e l’occupazione in tutta Europa. Proprio la Germania dovrebbe contribuire al recupero della fiducia nell’euro e a portare avanti l’integrazione europea». Non diverso il giudizio del gruppo Volkswagen, che in un comunicato di metà settimana ha reso noto che «non ha senso parlare di una crisi dell’euro, dato che in questi anni si è dimostrata essere una valuta molto stabile». Sulla stessa linea anche i vertici di Siemens, BMW, Daimler, Deutsche Telekom e Deutsche Post, tutti pubblicamente uniti nel ritenere che il salvataggio dell’euro costerà comunque sempre meno di un abbandono della moneta unica da parte di Berlino.
Che d’ora in poi la signora Merkel debba essere più risoluta sul versante degli aiuti agli Stati membri e meno rigorosa sul fronte della finanza pubblica, questo le grandi imprese tedesche non hanno osato dirlo. La sensazione, confermata dai più recenti sondaggi tutti favorevoli alla CDU, è che “il bastone e la carota” della Cancelliera siano uno strumento politico non poi così indigesto all’establishment economico e finanziario tedesco, il quale, nei due anni della crisi dei PIIGS, ha potuto grandemente approfittare della nomea di “porto sicuro” della Repubblica federale.