Il libro che Giorgio La Malfa ha scritto su Cuccia, edito da Feltrinelli, segna un progresso importante nella saggistica finanziaria. La novità è rappresentata dal desiderio dell’Autore di tracciare il profilo dell’uomo lasciando invece la storia di Mediobanca a quando saranno disponibili le carte riservate oggi in corso di classificazione nell’Archivio storico.
Separare l’uomo dalla sua creatura non è compito facile data la pressoché totale dedizione del primo alla seconda in oltre mezzo secolo di vita (dal 1946 al 2000); ma io ritengo che La Malfa abbia raggiunto brillantemente il suo scopo inquadrando rigorosamente Enrico Cuccia nel suo tempo. Ha potuto farlo grazie alla particolare frequentazione del banchiere dagli anni 50 sino alla sua scomparsa il 23 giugno 2000. Assunto una prima volta all’Ufficio Studi della banca nel 1958, Giorgio La Malfa vi tornò dopo un ciclo di studi all’estero, alla fine degli anni 60 come direttore della R&S; una società inventata da Cuccia per elaborare ricerche e studi economici e finanziari della cui direzione io presi il seguito dopo che nel 1972 Giorgio scelse la carriera politica. In un ambiente nel quale era d’obbligo darsi del “lei”, Giorgio e Cuccia si davano del “tu” (unico caso). Questa sua vicinanza, favorita dalla robusta amicizia del banchiere con il padre di Giorgio, Ugo, e con Adolfo Tino (che era il consulente legale di Mediobanca), è alla base di molte delle considerazioni e dei documenti presentati e commentati in questo libro.
Distinguerei l’opera in tre parti: dopo un capitolo introduttivo e di sintesi, centrato sull’uomo, considerato il vero segreto di Mediobanca, si passa alla formazione e all’apprendistato di Cuccia inquadrati nel periodo della riforma bancaria e dei primi passi dell’Iri. In questi anni originarono le competenze favorendo le prime relazioni. Tra queste quella con Donato Menichella che, a mio parere, fu il suo principale modello professionale.
Una seconda parte è dedicata alla creazione di Mediobanca e ad alcune vicende connesse (l’affaire Sindona, gli scontri con i politici in occasione delle privatizzazioni di Mediobanca e delle Bin). Infine, una sintesi delle idee di Cuccia, della sua profonda cultura e del suo rapporto con il collaboratore prediletto, quel “Vincenzino” Maranghi che subirà gli attacchi brutali di coloro che, sbandierando il nuovo, vorranno prendere possesso del vecchio con i vecchi metodi.
Il libro contiene alcune appendici documentarie molto interessanti: due articoli scritti da Cuccia giornalista al Messaggero, una sua nota da Londra sulla base aurea ed i sistemi del credito, una deliziosa corrispondenza con Pasquale Saraceno a commento del buon affare fatto dall’Iri nel salvare le tre grandi banche miste (Comit, Credit e Banco di Roma) con il conseguente rilievo delle loro partecipazioni industriali, un appunto del settembre 1944 sul primo progetto di Mediobanca, il verbale redatto da Cuccia sul suo incontro con Sindona a New York nell’aprile 1979 (una terribile primizia), una nota inedita di Cuccia sulla disoccupazione (un problema che ha sempre cercato di contribuire a risolvere).
Come precisato nella prefazione, l’autore non traccia la storia di Mediobanca e non si misura dando giudizi sulle sue operazioni (i cui dettagli, per ora, restano noti solo limitatamente ai materiali disponibili da fonti diverse da Mediobanca). Egli tenta però di interpretare alcuni passaggi fondamentali che sono il riflesso della formazione e della cultura dell’uomo. Mi limito a richiamarne tre.
Il primo riguarda il perché della fondazione di Mediobanca nella quale Raffaele Mattioli giocò senz’altro il ruolo maggiore. Giorgio risponde che si volle ricostituire la banca mista senza incorrere negli errori che ne provocarono la caduta. Quindi, un ente che raccoglie denari a lungo termine per impiegare a lungo termine (combinando le scadenze di attivi e passivi), sostenendo gli investimenti per lo sviluppo del paese. L’Autore lo afferma quando “svela” i segreti di Mediobanca: “è stata l’erede della Comit di Toeplitz, destinata a ripeterne i successi, ma, nello stesso tempo, a evitarne gli errori” (p. 33). Cuccia lo dice chiaramente nella corrispondenza del 1956 con Saraceno: “… la banca d’affari, quando rispetti tutti i canoni del suo mestiere, è ancora uno dei più saggi, efficienti ed economici strumenti per promuovere gli investimenti di un paese” (p. 265). L’Autore afferma che il vero segreto di Mediobanca fu l’uomo Cuccia. Difatti, Mediobanca nasce nel 1946 sotto la forma giuridica “privata” della società per azioni e un capitale di un miliardo di lire in presenza di istituti pubblici la cui raccolta era garantita dallo Stato. Essi avrebbero potuto anticiparne le mosse, primo fra tutti l’Imi che beneficiava per giunta della “vicinanza” della Banca d’Italia il cui direttore generale era per statuto “consigliere sostituto del presidente”; ma essi subivano la proprietà pubblica e non avevano le competenze adatte, ovvero non avevano un Cuccia ed era questa figura che serviva agli industriali per ricostruire e sviluppare le loro fabbriche nel dopoguerra. E’ allora evidente perché il Nostro reclamasse la massima indipendenza, anche dallo stesso Mattioli che aveva creato le condizioni del suo stesso successo.
Il secondo passaggio sul modus operandi riguarda i patti di sindacato che non furono certo inventati da Cuccia, ma da lui usati in quanto meccanismi diffusi. Giorgio La Malfa ritiene che essi furono lo strumento usato per rafforzare un capitalismo privato povero di capitali (o poco propenso ad impiegarli in attività produttive) tenendolo perciò al riparo dalle tentazioni di cedere le imprese allo Stato. Vi era per giunta una certa ostilità del maggiore partito italiano che mal sopportava di non poter mettere le mani su ricche “prede” quali erano le banche “laiche” dell’Iri, tra cui Mediobanca. Il paladino di questa “politica” fu Beniamino Andreatta il quale, pur rifuggendo da visioni clientelari, secondo Giorgio considerava un obiettivo politico ovvio quello di assicurare alla Dc i principali centri di potere economico. Di qui scontri durissimi tra Cuccia e Romano Prodi (andreattiano) prima sulla privatizzazione di Mediobanca e poi su quella delle Bin sue azioniste. Lo scopo cucciano era sempre quello di evitare quella mainmise. Il confronto iniziò duro proprio sul patto di sindacato di Mediobanca dove i privati contavano quanto le Bin pur avendo sottoscritto solo il 6% del capitale. A questo proposito, Giorgio rivela per la prima volta l’origine di quel patto che in realtà rendeva possibile l’internazionalizzazione di Mediobanca: la presenza nel capitale di importanti banche e finanziarie estere (Lazard di New York, Parigi e Londra, Lehman Brothers, Berliner Handels Gesellschaft, Sofina) era parallela alla stipula di contratti di first refusal nei quali ciascun contraente si impegnava ad offrire all’altro gli affari tra le imprese dei rispettivi paesi. Fu grazie a questi rapporti che Mediobanca assunse una posizione di rilievo internazionale (riuscendo tra l’altro a collocare titoli di imprese italiane, pubbliche e private, che il nostro ristretto mercato non avrebbe potuto assorbire). E quell’equilibrio di poteri non serviva ad altro che a garantire i partner sulla condotta “professionale” (e non “politica”) della banca di un paese a quei tempi assai poco attrattivo. Mediobanca mantenne la sua autonomia operativa, le Bin mantennero i rapporti su impieghi e raccolta e incassarono i lauti dividendi che via Filodrammatici distribuiva: dove stava il presunto patto leonino? Ancora oggi Prodi combatte i patti di sindacato in quanto espressioni di un “capitalismo a suffragio ristretto” senza avvedersi che l’alternativa è un capitalismo a nessun suffragio, quello dell’impresa di nessuno (il termine è di Bruno Visentini) dove a comandare sono i dirigenti autoreferenti e quindi giudici delle loro stesse azioni.
Il terzo passaggio su cui vorrei richiamare l’attenzione è quello del “salotto buono”, termine non usato da (e in) Mediobanca. A p. 43 l’Autore ricorda che gli interlocutori principali di Cuccia erano cinque: la Banca d’Italia, l’Iri, la Lazard, la Fiat e la Comit. Le relazioni con la Banca d’Italia furono eccellenti con i Governatori Menichella, Carli e Baffi. Quest’ultimo accettò anche di presiedere l’Istituto Europeo di Oncologia, un ente scientifico modernamente attrezzato e dedito al ricovero e alle cure, voluto da Cuccia che, consigliato dal Prof. Antonio Bartorelli, chiamò il valente Umberto Veronesi a dirigerlo. Riguardo alla Fiat il principale rapporto fu ovviamente con Gianni Agnelli; il più brillante capitalista italiano fu iniziato alla finanza proprio da Cuccia che lo propose consigliere di amministrazione nel 1962 prendendo il posto lasciato dallo scomparso primo Presidente, Eugenio Rosasco. Ritengo che debba essere aggiunto Leopoldo Pirelli che, con Gianni Agnelli, ha rappresentato a lungo la grande industria nel Consiglio di amministrazione di Mediobanca. Ciò detto, Mediobanca non è mai stata un circolo ristretto e inaccessibile; la prova è l’elenco dei soci al momento della sua “privatizzazione” nel 1988 dove figurano anche quei medi imprenditori del Quarto capitalismo che oggi tutti ammirano e che la stessa Mediobanca ha contribuito a portare alla ribalta grazie alle indagini della sua Area Studi.
Lunedì scorso il libro di Giorgio La Malfa è stato oggetto di una bella presentazione presso la sede milanese della Fondazione Corriere della Sera con dotti interventi di Piergaetano Marchetti, Giangiacomo Nardozzi e Ferruccio de Bortoli e pronta replica dell’Autore. Essendo in vendita solo il giorno dopo, dal pubblico presente in sala sono venute alcune domande non sull’uomo, ma sulla Mediobanca: è sua la colpa del declino delle grandi imprese in Italia e della piccola consistenza della Borsa? Le grandi imprese sono state troppo a lungo protette? Sono questioni alle quali debbono rispondere storici preparati che si pongano in posizione neutrale sia rispetto a Mediobanca che ai suoi più acerrimi critici. Nella mia posizione di ex responsabile dell’Area Studi Mediobanca, dove ho lavorato per oltre 40 anni, vorrei proporre alcuni contesti di riflessione. Operando a stretto contatto con le grandi imprese, Mediobanca ha sempre cercato di salvaguardarne la vitalità e ciò è cosa diversa dall’aver difeso le grandi famiglie che ne erano le controllanti. Quando necessario, essa ha sempre puntato sul ricambio manageriale avendo per obiettivo l’impresa in quanto fonte di ricchezza e benessere per la società solo se efficiente. Perciò, sin quando le è stata consentita una funzione centrale nel capitalismo italiano, ha contribuito non solo a tenere in piedi i grandi gruppi, ma anche a svilupparli. Molti dei suoi servizi sono serviti a questo: basti ricordare il grande accordo tra Pirelli e Dunlop nel 1970. Negli anni 70 del secolo scorso Mediobanca contribuì a salvare dal fallimento buona parte delle grandi imprese italiane (Olivetti, Fiat, Snia, Montedison) sostenendo poi irrobustimenti finanziari di pari passo con il rinnovamento dei dirigenti. Fu protagonista di due grandi ristrutturazioni che segnarono la nostra industria facendole recuperare posizioni importanti sui mercati, successivamente perdute. Nel 1981 diede un nuovo assetto proprietario alla Montedison, secondo gruppo privato, che sotto la guida di Mario Schimberni ebbe la sua migliore stagione. In tutti questi interventi le imprese applicarono innovazioni e nuove tecnologie (il polipropilene della Montedison, la tecnologia elettronica dell’Olivetti, la robotizzazione dei reparti Fiat e l’introduzione della produzione snella). In realtà, come il caso dello stesso Schimberni dimostrò, i problemi venivano quando Mediobanca non era più in grado di controllare le grandi imprese che pure sosteneva e, a date ricorrenti, salvava dal fallimento. Su questi “fatti” gli storici potranno cimentarsi giudicando anche degli errori (inevitabili) commessi da “chi fa”.
Negli anni 90, poi, l’atteggiamento delle nostre maggiori istituzioni cambiò, arrivando in certi casi a penalizzare volutamente Mediobanca. Ne sono prova i provvedimenti sul suo principale mezzo di raccolta (i semplici e limpidi certificati di deposito) e il chiaro sostegno che le massime istituzioni (caso Britannia nel 1992) accordarono alle (già compromesse) investment bank estere chiamate a calare in Italia e spesso preferite nei mandati per le privatizzazioni (all’estero la regola voleva le privatizzazioni realizzate da investment bank locali: da noi si cominciò con l’autodafe). Si è finiti così con la banca trasformata in una fabbrica di profitti, usata per arricchire non il proprio paese, ma i suoi azionisti e soprattutto i dirigenti. La finanza è divenuta l’intermediario ideale per sottrarre all’imprenditore creativo i migliori frutti della sua intelligenza. Giorgio La Malfa riporta molto opportunamente una lettera di Cuccia ad Eric Roll nel 1995: “Vi è l’idea ‘anglosassone’ nella quale la preoccupazione principale delle merchant banks sembra essere quella di ritagliare per sé delle prestigiose nicchie in quanto intermediari nel mercato dei capitali. Questo consente loro di inflazionare il valore dei loro servizi… Per di più, queste commissioni vanno ad incrementare la ricchezza personale dei partners della banca piuttosto che a rafforzare il bilancio dell’istituzione” (p. 227). Dobbiamo preferire un Cuccia a favore del modello renano o le mirabolanti transazioni sui derivati magari rifilate ad ignari imprenditori di provincia?