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Cucchiani: “Intesa deve guidare il made in Italy nel mondo”

RAPPORTO BANCA INTESA SUI DISTRETTI – Il nuovo ceo di Intesasanpaolo, Enrico Cucchiani, indica alla banca tre obiettivi per mettersi al servizio dell’economia italia: l’internazionalizzazione delle imprese, il rafforzamento patrimoniale delle Pmi e l’innovazione – De Felice: “L’impatto della crisi sarà meno violneto di 3 anni fa”.

Cucchiani: “Intesa deve guidare il made in Italy nel mondo”

CUCCHIANI: PIU’ STRANIERI IN ITALIA, PERCHE’ NO?

La “sberla” del 2009 non è ancora stata dimenticata dall’economia italiana, distretti compresi. Ma sia nel 2010 che l’anno scorso il pugile si è rialzato: il fatturato 2010 è salito dell’8,3%, lo scorso anno del 8,5. Purtroppo, in linea generale, la ripresa segnerà il passo nel 2012, anno di recessione, in cui non si andrà oltre il punto percentuale (+3% nel 2013). “Ma rispetto al 2009 – sottolinea Gregorio De Felice, chief Economist di Banca Intesa – l’impatto della crisi sarà meno violento perchè non verrà meno il volano della domanda internazionale”. Ecco, in estrema sintesi, il risultato del “Rapporto sull’economia dei distretti “ di Banca Intesa basato sull’analisi di 49mila imprese appartenenti a 139 distretti (circa un terzo del pil italiano), occasione, non casuale, per la prima uscita pubblica in Italia di Enrico Cucchiani, il neo consigliere delegato della banca, consapevole di esordire in una congiuntura in salita, più per l’economia italiana che per la banca di sistema.

“Ritengo – ha esordito Cucchiani – che la banca debba porsi tre obiettivi al servizio dell’economia italiana. Primo, favorire l’internazionalizzazione delle nostre imprese. Già oggi il panorama presenta luci ed ombre. Tra queste i tempi di pagamenti, oltre 120 giorni, che non sono assolutamete degni di un Paese europeo. Ma non possiamo trascurare che nelle imprese che hanno tirato la crescita il fatturato internazionale è pari al 51%. Ma, soprattutto, c’è un sottogruppo di imprese eccellenti che hanno registrato tassi di crescita del 47%: l’orgoglio del Paese. In questa cornice, la banca deve aiutare il processo di internazionalizzazione della nostra economia. Le basi ci sono: 31 mila dipendenti di Intesa, su oltre 100 mila, lavorano in un network globale che non copre solo le capitali tradizionali dell’economia ma è operativo in Cina, Medio Oriente, Sud America e tutte le altre piazze a maggior tasso di crescita”.

Seconda direzione di sviluppo: il rafforzamento del patrimonio delle piccole e medie imprese. “E’ un nostro compito prioritario – continua Cucchiani – aiutare l’evoluzione del capitalismo familiare. Non mi impressiona il fenomeno del delisting: è normale che, quando i corsi sono bassi, i gruppi di controllo si possano ricomprare le quote di minoranza. Ma questo non fa diminuire l’esigenza di creare opportunità per un salto di qualità da parte delle imprese familiari”. Nonostante qualche lieve miglioramento (la taglia minima delle imprese distrettuali passa da 2,5 a 4,3 milioni) le dimensioni dei nostri gruppi restano troppo modeste per cogliere i trend della domanda internazionale. “Prendiamo il business delle megacities che si sta affermando in Asia e in Sud America: i nostri gruppi sono sottodimensionati rispetto a quelle sfide. Un grande Paese ha bisogno di grandi aziende”.

Infine, la banca deve spendere energie per stimolare l’innovazion e la R&S, accelerando il processo di integrare con le Università ed altri centri d’eccellenza. Tre direzioni di marcia per ridurre i non pochi gap del sistema Italia. Uno, in particolare, che la retorica di bandiera ha spesso relegato in secondo piano: la scarsa attrattività del Bel Paese agli occhi dei capitali stranieri . “Dai numeri della ricerca – sottolinea Cucchiani – emerge la forbice tra gli investimenti delle aziende italiane oltre confine, strategia corretta e necesaria per conquistare i mercati e la penuria di investimenti esteri. In Italia la cifra è meno di un quarto di quanto viene destinato alla Francia, un gap che si riflette nella mancata occupazione”.

Tante le cause della scarsa attrattività: fisco, lentezza della giustizia, burocrazia, infrastrutture carenti. “Credo che tutto si possa sintetizzare in una parola: mancanza di credibilità” che si contrasta anche con una comunicazione da parte della banca agli interlocutori internazionali. Insomma, la corazzata del credito italiano non si tira indietro, dall’alto di una presenza impressionante: 454 miliardi di affidamenti nel 2011, più di un quarto del pil italiano, con un flusso di finanziamenti a medio-lungo termine in crescita del 15% (il 17% per le pmi). Una presenza così pervasiva che, per forza, obbliga alla banca a non operare in senso darwiniano, favorendo le imprese con maggiore spinta propulsiva ma anche ad evitare, nei limiti del possibili, crisi che avrebbero gravi impatti sull’occupazione e, di riflesso, sui consumi. “Da questo punto di vista – commenta De Felice – l’augurio è che la lotta all’evasione consenta una riduzione del carico fiscale entro la fine dell’anno”.

Nell’attesa, il chief economist accende un faro su due comparti, potenzialmente trainanti: l’agroagroalimentare, in grande crescita internazionale grazie al contenuto innovativo e di qualità che formano una barriera per i competitor (costretti a far shopping di aziende nostrane); i poli tecnologici composti da Ict, biomedicale, aeronautica e farmaceutica che, pur non essendo parte del gotha mondiale dell’hi tech, mostrano tassi di crescita ben superiori ai distretti internazionali.

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