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Cucchiani: “Il paradosso europeo” è quello di un continente che spreca tutti i suoi punti di forza

Estratto dell’intervento di Enrico Cucchiani del 12 ottobre a Washington, Ambasciata italiana, in occasione della riunione annuale del Fondo Monetario Internazionale. L’intervento di Cucchiani ha aperto la discussione della tavola rotonda moderata da Bill Emmott, già Direttore dell’Economist, cui hanno partecipato anche Martin Feldstein, il noto economista di Harvard, che fece parte dell’entourage di Bill Clinton, e Arrigo Sadun, ex Fondo Monetario Internazionale”.

“THE EUROPEAN PARADOX” (“Il Paradosso europeo”)

L’Europa, in teoria, dispone di tutti gli ingredienti necessari per avere successo.

– Gode di parametri macroeconomici solidi e superiori a quelli degli altri grandi blocchi economici
– Rappresenta il primo mercato al mondo in termini dimensionali
– Dispone di grandi aziende e marchi ammirati in ogni angolo del Pianeta
– Ha standard educativi medi assai elevati

Il paradosso è che, nonostante questi straordinari punti di forza, l’economia europea sta attraversando un periodo di recessione/stagnazione senza precedenti; il tasso di disoccupazione è a livelli inaccettabili e sta crescendo ulteriormente e la disoccupazione giovanile, in particolare, costituisce un problema allarmante, gravissimo sia sotto il profilo economico che quello sociale (almeno nell’europeriferia). Nel 2012 il gap di crescita dell’Eurozona rispetto alla media mondiale è stato del 4 per cento e del 3 per cento rispetto agli Stati Uniti (V. Allegato 1).

Come si spiega il “paradosso europeo”? Quali sono le cause del gap di crescita? Alla base della crisi economica in atto c’è un brusco calo degli investimenti (- 15 per cento circa in Europa rispetto all’epoca pre-Lehman e – 25 per cento circa in Italia). Alla radice del calo ci sono il basso livello di “libertà Economica” e di “competitività” (V. Allegato 2) di alcuni dei Paesi più rilevanti (Italia, Spagna e Francia) in raffronto ai Paesi del Nord, al Regno Unito e alla Germania. Il Welfare, orgoglio degli Europei, costituisce, un ulteriore handicap sotto il profilo competitivo: l’Europa, infatti, ha una popolazione , come ricorda spesso la Signora Merkel, che vale il 7 per cento di quella mondiale mentre, sulla medesima scala, il PIL è pari al 25 per cento e la spesa in Welfare incide per il 50 per cento. Il tema di fondo non è, ovviamente, l’utilità del welfare ma la sua sostenibilità. Se tali livelli di spesa non fossero sostenibili si rischierebbe di consegnare alle prossime generazioni un futuro senza occupazione e senza welfare.

In un contesto di bassa competitività e bassa libertà economica non può dunque stupire che gli investimenti si dirigano al di fuori dell’Europa e, lo ribadiamo, questa è la causa fondamentale della prolungata recessione dell’UE. Il processo di “integrazione” attualmente in atto costituisce uno sviluppo sicuramente positivo per un insieme di Paesi individualmente sottodimensionati ma, da solo, non è sufficiente a risolvere il problema della crescita.

L’ “integrazione”, con l’importante eccezione dell’Unione Bancaria (in via di attuazione grazie alla leadership illuminata ed autorevole della BCE) è un processo lento. Tale processo è lento sia per la complessità tecnica della sua realizzazione sia per le comprensibili (ancorché non pienamente giustificabili) resistenze politiche. Le economie performanti, infatti, temono il costo dei sussidi ai Paesi in difficoltà e questi temono di essere strangolati dalla misure di austerità imposte dal Nord. La transizione verso una sovranità condivisa (un altro modo di descrivere il processo d’integrazione) è, a mio avviso, apprezzabile ma accade troppo lentamente e, nel frattempo, l’economia fatica ad uscire da questa fase prolungata di stallo e i cittadini – i giovani in particolare – continuano a pagare un costo sociale troppo elevato e non sostenibile.

Cosa dovrebbe dunque fare l’Europa per realizzare il formidabile potenziale di cui dispone e sfruttare i propri straordinari punti di forza? Cosa si dovrebbe fare per accelerare la ripresa e riprendere un percorso di crescita e di progresso? In aggiunta all’“integrazione” occorre un processo di “alignment” (in italiano, forse meno efficacemente, potremmo tradurre “allineamento”, “adeguamento”) a best practice internazionali testate, selezionate fra quelle dei Paesi virtuosi dell’Unione Europea ma anche fra quelle dei Paesi extraeuropei che fanno parte del 75 per cento dell’economia mondiale che cresce a tassi elevati. Nell’economia globale, se si vuole essere competitivi, non ci si può permettere di limitare il proprio orizzonte al cortile di casa. In pratica questo significa:

– Ridurre la spesa pubblica, oggi a livelli insostenibili in molti Paesi. Ciò richiede l’eliminazione di strati di burocrazia che inibiscono sia gli investimenti sia lo sviluppo di una nuova generazione di imprenditori
– Ribilanciare la spesa pubblica per favorire maggiori investimenti in Education, Ricerca e Sviluppo e Infrastrutture – Privatizzare tutto ciò che non è strategico (assicurandosi che il termine strategico non venga utilizzato come alibi per non fare nulla) al fine di recuperare risorse da destinare alla riduzione del debito pubblico e assicurare ai cittadini prodotti/servizi di miglior qualità, a minor prezzo
– Realizzare riforme strutturali (mercato del lavoro, pensioni, sistema fiscale secondo le priorità e le specificità delle singole Nazioni)

L’”Alignment”, in realtà, non è solo complementare all’“integrazione”: esso è propedeutico in quanto è difficile che l’ “integrazione” possa essere realizzata e possa stare in piedi in assenza di “policies” e “practices” allineate e armonizzate. Non solo. Mentre il processo di “integrazione” richiede il consenso di tutti i Paesi, l’”alignment” è responsabilità ed interesse di ciascuno Stato membro: non si tratta dei “compiti a casa” assegnati da Bruxelles o da qualche Paese del Nord ma di una scelta autonoma e consapevole per assicurare la competitività e la crescita dell’economia nazionale. Un’ultima area di intervento. L’Europa è un continente con una popolazione che invecchia rapidamente e i giovani hanno scarso peso politico. La disoccupazione giovanile non è solo un problema economico e sociale: è anche un problema morale e come tale dovrebbe essere vissuto da ciascuno di noi! Qualcosa di estremamente semplice potrebbe risultare di grande efficacia e ed avere risvolti positivi per tutti. Negli Stati Uniti la mobilità geografica è 15 volte superiore a quella Europea. In Europa, il maggior vincolo alla mobilità geografica sono le barriere linguistiche.

Una seconda lingua obbligatoria in tutta l’Unione potrebbe risolvere il problema. Tale seconda lingua non può che essere l’inglese, la lingua universale del business. Una adeguata diffusione e pratica della seconda lingua consentirebbe, ad esempio, ai giovani catalani e calabresi, che hanno in comune tassi di disoccupazione del 50 per cento, di trovare, facile collocazione in Danimarca, Paese dove c’è carenza di mano d’opera. Un’ultima riflessione. E’ entrato nel gergo comune il termine “New Normal” (“Nuova Normalità”). E’ opinione diffusa che la “Nuova Normalità” sia e debba essere peggiore, molto peggiore della “vecchia normalità” (quella dell’epoca pre-Lehman). Ritengo opportuno rivisitare questo luogo comune. C’è anche una “good New Normal”, una Nuova Normalità “positiva” misurabile in termini di crescita economica e di miglioramento dello standard di vita delle popolazioni. Questa “good New Normal” la si tocca con mano a Silicon Valley, Singapore, Hong Kong, Shangai, Tel Aviv, Dubai. Forse è giunta l’ora che Bruxelles e altre capitali europee incomincino a pensare al di fuori degli schemi tradizionale e allarghino il loro orizzonti. Nell’interesse delle nuove generazioni!


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