Per John Elkann è davvero la prova più impegnativa della sua vita. Tirare fuori Stellantis dai guai richiederà grandi doti di fermezza, lucidità e generosità. Se saprà esercitarle queste sono doti che possono fare di un rampollo di buona famiglia, finora diligente e fortunato, un grande manager dotato di quel carisma che è l’ingrediente fondamentale per farsi seguire dai propri collaboratori a tutti i livelli, e per poter influire in positivo, sulla più ampia opinione pubblica. In questo impegno può ispirarsi a quanto dovrebbe aver imparato da Marchionne che nel 2004 si trovò una Fiat peggio messa di quanto non sia oggi Stellantis, che seppe rilanciare a poi trasformare in una Fca molto americana.
Oggi come allora l’opinione pubblica ed una larga fetta della classe dirigente, guardavano con scetticismo, se non con malcelata soddisfazione, alle scarse prospettive di sopravvivenza della Fiat. Anche oggi, dopo l’allontanamento anticipato dell’Ad Tavares, il caos informativo e il chiacchiericcio politico sono ai massimi. Come giustamente afferma Federico Fubini, ora che la festa pagana per la cacciata di Tavares è finita, si può cominciare a pensare alle vere cause della crisi dell’auto in Italia e quindi a quali rimedi adottare per salvaguardare il settore e mantenere il più possibile i posti di lavoro. Fubini cita ad esempio il fatto che il costo dell’elettricità in Italia è circa il doppio rispetto ad altri paesi e quindi da noi produrre certe auto (specialmente quelle di piccola cilindrata) non è economicamente sostenibile. E questo è solo uno dei motivi che fanno del nostro paese un luogo dove la grande industria non c’è più.
Marchionne e la sua visione di impresa tra resistenze politiche e sindacali
Basta ricordare per sommi capi la storia degli ultimi vent’anni per capire per quale ragione il nostro “non è un paese adatto alla grande impresa”. Marchionne era portatore di una filosofia produttiva che puntava sul superamento della contrapposizione ideologica tra padroni ed operai, per arrivare alla creazione di una comunità in cui tutti i soggetti partecipanti avrebbero avuto vantaggi, compresa la “nazione” nel suo complesso. Questa visione comportava cambiamenti profondi non solo nella vita delle fabbriche, ma anche nel rapporto tra politici ed imprese dove alle logiche di potere doveva subentrare una leale e trasparente collaborazione. Questa filosofia fu rifiutata dagli italiani. I politici non la capirono, i sindacati, o meglio alcuni sindacati e cioè la Fiom guidata da Landini, ingaggiarono una battaglia epocale per ostacolarla, gli stessi imprenditori pensarono che la rivoluzione di Marchionne fosse troppo rischiosa, e di fatto lasciarono la Fiat da sola facendola uscire da Confindustria e dal contratto dei metalmeccanici. Gli altri sindacati firmarono un accordo separato, che poi fu approvato da tutte le fabbriche del gruppo, mentre Landini continuava la sua guerra (anche giudiziaria) che è servita solo a lui consentendogli la scalata al vertice della Cgil, da dove continua a fare politica sognando la possibilità di rovesciare l’Italia come un guanto.
Marchionne aveva capito con lucidità che in Italia, specie dopo la grande crisi del 2008-2009, non c’era alcuna possibilità di trovare quella unità di intenti che consentisse di creare un clima favorevole alla crescita delle imprese. L’occasione di acquistare la Chrysler spostò la sua attenzione e quella di tutta l’azienda sugli Stati Uniti. Ed infatti, anche con l’accordo dei sindacati americani (notare la differenza con Landini) in pochi anni l’azienda americana fu rilanciata tanto che Jeep divenne un marchio mondiale e gli utili della Fiat, poi Fca, venivano per il 90% dagli Usa.
Dopo la morte di Marchionne c’è stato l’accordo con i francesi. L’unico possibile per raggiungere sulle dimensione di oltre 5 milioni di auto che ormai è necessaria per poter tentare di stare al passo con gli altri giganti del settore.
Il mercato auto in Italia e i numeri di Stellantis
In questo contesto l’Italia è un mercato marginale sia come produzione che come vendita di vetture. La domanda da porsi oggi è: cosa si può fare per renderlo più appetibile sia per i costruttori di auto ed in primis per gli stabilimenti Stellantis, sia per quelli dell’indotto che già vendono in tutto il mondo? Tanto per cominciare non giova la gran confusione di cifre e opinioni che vengono spacciate come verità da opinionisti improvvisati che non hanno mai pensato di leggere un bilancio di Stellantis. Sorprende ad esempio la leggerezza con cui si sparano cifre sugli utili ed i dividendi distribuiti da Stellantis. Chi parla di 23 miliardi di utili in tre anni chi di 23 miliardi di dividendi. Chi dice che non ci sarebbero soldi per gli investimenti e chi parla della necessità di un aumento di capitale. Finalmente il Sole 24 Ore ha messo in fila le cifre reali: tra il 2021 ed il 2023 gli utili di Stellantis sono stati di circa 50 miliardi mentre i dividendi sono ammontati a 7,5 miliardi. Aggiungendo quelli da fusione (che però hanno motivazioni in parti diverse) si arriva ad 11,7 miliardi. Se gli investimenti non sono stati fatti non è solo questione di mancanza di soldi. Forse Tavares si è trovato a gestire un’azienda molto grande con ben 14 marchi automobilistici e non sapeva bene di quali collaboratori fidarsi per cui ha allontanato tanta gente valida e l’azienda si è sostanzialmente fermata. Tavares ha perseguito una esagerata politica di taglio dei costi ma soprattutto ha sopravvalutato la capacità di assorbimento del mercato facendo aumenti dei prezzi di oltre il 27% , molto di più dell’inflazione. Ciò ha provocato una forte caduta delle quote di mercato non solo in Italia ed in Europa ma soprattutto negli Usa dove Chrysler ha perso ben quattro punti di quota di mercato.
Crisi auto: le incertezze della transizione ecologica
A tutto questo che possiamo considerare come le difficoltà di una grande fusione, si è aggiunta l’incertezza della transizione ecologica. Anche in questo caso si dicono tante cose inesatte. Marchionne era scettico sulla possibilità di puntare tutto sul solo elettrico. Ma nella sua ultima riunione con i manager nel 2018 pochi mesi prima di morire, annunciò il passaggio in un quinquennio di tutta la gamma sull’elettrico o sull’ibrido. D’altra parte ogni buon manager deve aver ben presente la prima regola per evitare squilibri aziendali: evitare di fare investimenti in tempi troppo anticipati o in dimensioni errate. L’elettrico ancora oggi, almeno finché non si troveranno nuove batterie di lunga durata e rapida ricarica, è un grosso punto interrogativo. Aziende che hanno fatto rapidi passi in avanti si trovano a dover portare i libri in tribunale. La Cina fa eccezione, e bisognerebbe chiedersi per quali ragioni.
Tutti invocano da John Elkann un nuovo piano industriale che “voglia bene all’Italia” come ha detto il presidente di Confindustria, Orsini. Ma per il momento troppe sono le incognite ancora da sciogliere, in primo luogo quelle regolamentari di Bruxelles a cominciare dalle multe sulle emissioni che dovrebbero scattare il prossimo anno e che paradossalmente potrebbero spingere le aziende automobilistiche a produrre di meno. L’Italia, come ha detto Fubini, potrà giocare un ruolo solo se saprà offrire condizioni di competitività paragonabili a quelle di altri paesi non tanto sui salari, ma su tutti gli altri costi dei servizi e sulla qualità del lavoro. Anche gli incentivi pubblici dovranno essere indirizzati alla innovazione ed agli investimenti.
Le polemiche sulla cassa integrazione
Invocazioni generiche sui soldi dati dal governo italiano alla Fiat o polemiche sulla cassa integrazione quando si dovrebbe sapere che la cassa è pagata da tutte le imprese e che viene usata nei periodi di crisi ordinarie. La Fiat è stata sempre in equilibrio, mentre per la cassa straordinaria effettivamente c’è un intervento dello Stato che compensa in gran parte il fatto che non riesce a fare nulla di meglio sulla possibilità di ricollocare i lavoratori in esubero in certi settori in altri che invece continuano ad avere bisogno di mano d’opera. Le cosiddette politiche attive non si sono mai viste.
Questioni estremamente complicate che non possono essere svilite da battutine come quella di Luca Montezemolo che non capiva come mai la nuova 600 veniva fatta in Polonia dimenticando che l’attuale 500 è fatta in Polonia ormai da molti anni, forse da quando lui era ancora presidente della Fiat. Magari lo aveva dimenticato!