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Crisi mediorientale e mercati: Iran al centro dei venti di guerra

Imagoeconomica

L’uccisione di Qassem Soleimani, capo della Forza di Al Quds, era stata pianificata da tempo e giunge dopo l’intensificarsi delle manifestazioni antigovernative di piazza che si erano diffuse in Iraq dallo scorso ottobre, riportando a galla le tensioni nel mondo sciita e provocando oltre 200 morti e 500 feriti, oltre a migliaia di arresti. Un film già visto qualche anno fa anche in Turchia, che dopo i due anni di stato di emergenza, e un bilancio di 80 mila arresti e 160mila licenziamenti nella pubblica amministrazione, ha varato una legge anti-terrorismo autoritaria.

Soleimani, combattendo l’ISIS in Iraq per evitare uno scontro religioso e dogmatico ancora più diffuso, era una sorta di proconsole. Il suo potere decisionale e operativo si estendeva sino all’Afghanistan ed allo Yemen (in chiave anti-saudita, ovviamente). Con lui è morto Abu Mahdi al-Muhandis, vicecapo delle Forze di Mobilitazione Popolare, e considerato responsabile degli attacchi di dicembre alla base K1 di Kirkuk e all’ambasciata americana e condannato a morte in contumacia dal Kuwait.

Chi pensa di spiegare tutto con un colpo di testa del Presidente Trump a fini elettorali o non conosce i protocolli Usa per attacchi fuori dal territorio nazionale o non vuole guardare alla complessità degli equilibri nel mondo islamico, due aspetti che con le elezioni americane non hanno nulla a che vedere. Dalle esplosioni di maggio sulle petroliere nello Stretto di Hormuz fino agli attacchi con droni e missili delle milizie filoiraniane contro i pozzi petroliferi sauditi di metà settembre (che hanno compromesso la privatizzazione di Aramco), erano mesi che la tensione covava sotto le ceneri di un rapporto Usa-Iran logorato dalla rincorsa al nucleare.

L’assalto all’ambasciata americana a Baghdad ha immediatamente rispolverato le immagini dell’occupazione dell’ambasciata Usa in Iran e la crisi degli ostaggi di 40 anni fa. Da lì, il countdown…

L’AVANZATA DEL “NUOVO IMPERO OTTOMANO” DI ERDOGAN NELL’AFRICA DEL NORD

Intanto, Erdogan – approfittando del momento di impasse e del ritardo colpevole dell’Unione Europea, e anche dell’Italia, in una fattiva Politica estera per il Mediterraneo – sbarca in Libia contro il Governo di Haftar, generale dell’Esercito Nazionale Libico (LNA) e capo del Governo basato a Tobruch e sostenuto dal Parlamento. Nonostante proprio il Parlamento libico abbia votato unanimemente per rigettare il Memorandum di Intenti firmato con il Presidente turco da Fayez al Sarraj (numero uno del Consiglio Presidenziale e primo ministro del governo di accordo nazionale della Libia, basato a Tripoli dal 2015). Erdogan non ha esitato un istante a dare il via libera alle truppe turche (rafforzate da ribelli siriani fiancheggiatori della Turchia) a sbarcare in Libia, con la stessa leggerezza con la quale ha fatto piazza pulita dei curdi nelle aree di confine con la Siria lo scorso mese.

Quindi da un lato la Turchia (con il Qatar e il Sudan) sostiene al Sarraj; dall’altra Egitto, Paesi del Golfo, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Algeria e Russia supportano Haftar.

In sostanza il Qatar, che dal 2017 ha rotto le relazioni con Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo essendo sotto embargo, è ufficialmente legato all’Iran e da sempre entrambi sono accusati di finanziare diversi gruppi filo-terroristici operanti nell’area mediorientale, da Hezbollah ad al-Qaida, ma anche ISIS e Hamas. L’evoluzione del conflitto siriano ha intensificato negli ultimi anni il monito dell’Arabia Saudita verso tutto il mondo arabo, guidando una lotta al terrorismo ed agli estremismi cruciale per ridimensionare le mire espansionistiche sciite dell’Iran sull’Iraq e sul Libano.

Molti stati arabi hanno invocato quindi le risoluzioni Onu contro lo sconfinamento turco: anche nell’incontro della Lega Araba del 31 dicembre l’Egitto ha guidato il dibattito criticando aspramente l’azione turca, rappresentando un’evidente escalation del conflitto magrebino e costringendo anche l’UE a cancellare la missione a Tripoli. Immediata la reazione sulla lira turca, di nuovo sotto pressione.

DALL’ARGENTINA ALL’IRAN IL PASSO È BREVE…

In Argentina, lo spettro del Procuratore Alberto Nisman, che nel 2006 accusò l’Iran di aver ordinato l’attentato dell’AMIA del 1994 (l’Asociacion Mutual Israelita Argentina), armando le milizie di Hezbollah che causarono 85 morti, aleggia al Palazzo Presidenziale dopo il recente esito delle elezioni in Argentina. Le prime che vedono dopo 91 anni un governo guidato da un premier non peronista, che però ha scelto come vicepresidente l’ex Presidenta ed ora senatrice Christina Kirchner (CFK).

Proprio Christina Kirchner firmò un Memorandum con l’Iran nel 2013 in Etiopia, un tentativo per modificare l’esito delle indagini permettendo ai veri colpevoli, una decina di importanti dirigenti iraniani collusi con il gruppo di Hezbollah che aveva portato a termine l’attentato, di uscirne impuniti. Durante il suo incarico presidenziale, però, CFK cambiò idea, modificò drasticamente il proprio orientamento politico e si allineò alla politica dell’Amministrazione Usa di Obama. Una politica estera che cercava un accordo con l’Iran su più fronti: da quello sul nucleare a quello commerciale.

Dopo il discusso suicidio/omicidio di Nisman nel 2015, è il nuovo magistrato Bonadio che riprende l’inchiesta, provando che la Kirchner cercò di insabbiare il caso per salvare i rapporti economici tra Iran e Argentina durante il suo mandato.

Queste le premesse sulle quali si innesta l’esito elettorale delle recenti elezioni argentine con la vittoria di Alberto Fernandez, abilmente orchestrata dalla sua vicepresidente Christina Kirchner, ben consapevole di dover governare in un Paese al collasso economico puntellato da un prestito del Fondo monetario Internazionale di quasi 60 miliardi di dollari, elargito a piccole dosi fin dal settembre 2018.Con l’inflazione che supera il 50% e il rapporto debito/PIL tornato a ridosso del 100% (è raddoppiato in 4 anni), una nuova ristrutturazione del debito estero sarà inevitabile. Ma è soprattutto il dissesto sociale a condizionare l’azione del Governo recentemente eletto, e sul quale aleggia l’ombra iraniana.

Certo che, Argentina a parte, per i fondi comuni di investimento specializzati nei Paesi emergenti diventa sempre più difficile pesare il settore latinoamericano, che sembra implodere dal Venezuela al Cile, passando per le proteste in Ecuador, Colombia e Bolivia.

LA REAZIONE DEI MERCATI E LA MEDIAZIONE TEDESCO-RUSSA

Sui mercati internazionali, la prima reazione ha visto una riattivazione alla corsa all’oro (ai massimi dal 2013) ed al petrolio (+3,5%), in attesa di capire le reazioni dell’Ue e dei russi. Specialmente in vista dell’incontro del prossimo 11 gennaio del presidente Putin con la cancelliera tedesca Merkel, sono tanti gli ambiti di discussione geopolitica e i fronti aperti, dall’Ucraina alla Libia, non in ultimo Siria, Iran e Iraq.

I russi, interessati a mantenere la propria base in Siria e buoni rapporti commerciali con l’Iran, hanno sempre supportato il buon esito dell’accordo sul nucleare (JCPOA) siglato con Obama nel 2015 e sospeso da Trump nel 2018. Ora il silenzio diplomatico russo fa percepire come Putin sia intento a cercare di conciliare i due fronti bellici aperti senza perdere posizioni sul Risiko globale.

Merkel si è già portata avanti, aprendo un canale con Erdogan e offrendo una mediazione per mitigare gli effetti delle possibili reazioni iraniane all’eliminazione dei suoi due capi militari. L’incontro in Russia sarà fondamentale per la verifica delle capacità diplomatica degli organismi di governo UE, recentemente insediatisi, e per le seguenti decisioni degli investitori internazionali sugli asset europei.

Ad oggi gli importatori di petrolio asiatici, come quelli indonesiani e coreani, hanno visto le loro valute perdere terreno sui timori di aggravio della bolletta petrolifera. Allo stesso tempo, le solite divise-rifugio, come franco svizzero e yen giapponese, hanno rafforzato le loro posizioni.

E se per la maggior parte degli analisti il rischio di recessione era scongiurato per il 2020, o il nuovo anno inizia con una crescita del cosiddetto Dread risk (acronimo nato nel 2008 nella modellistica Microsoft sui rischi), ovvero un effetto domino sul Pil globale per le rinnovate pressioni sugli investimenti. È comunque troppo presto per creare allarmismi. Gli analisti vedono l’Iran cauto nelle reazioni, anche senza trascurare l’attacco in Kenya scatenato dagli jihadisti somali di Al Shabaab, che giudicano come un timido tentativo di alzare i toni dello scontro.

Intanto, la delegazione cinese dovrebbe arrivare il 13 gennaio a Washington per la firma della prima fase dell’accordo commerciale. Questo perché Xi Jinping non può procrastinare la situazione che sta avendo effetti pesanti e ripercussioni, oltre che economiche anche politiche, sempre più complesse da gestire all’interno. L’allentamento delle tensioni commerciali favorirà il dollaro, mentre le mani forti sono tornate sui titoli governativi, diminuendo l’esposizione della componente azionaria, ma ancora con modalità selettiva, a favore dei settori anti-ciclici. I mercati riapriranno definitivamente oggi i battenti ben posizionati in trincea e sulla difensiva, ma senza particolari scossoni e con molti fondi di private equity pronti a giocarsi la volatilità al meglio.

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