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Crisi demografica, per Bankitalia e Istat non basta recuperare la natalità: servono over 65 al lavoro, giovani e immigrati

Pixabay

In Italia nascono sempre meno bambini, le donne che non hanno figli aumentano e chi diventa madre lo fa sempre più tardi. Per contenere le conseguenze economiche del calo delle nascite serve aumentare la produttività: servono ultra 65enni al lavoro, giovani e immigrati. È il quadro in chiaroscuro descritto da Bankitalia e Istat durante il convegno “Lo sguardo lungo: il dividendo demografico nell’analisi dell’economia italiana”.

La crisi demografica non è solo una questione di calo della popolazione. È soprattutto un problema di squilibri tra generazioni, con implicazioni sociali ed economiche – ne dipende anche la sostenibilità del debito pubblico – che domanderà sempre più sanità pubblica e pensioni proprio mentre la forza di sostegno della popolazione in età attiva si indebolisce ogni giorno di più (convenzionalmente definita dalle persone di età compresa tra 15 e 64 anni). In gioco, in fondo, ci sono “solo” le fondamenta della salute di un Paese: la capacità di produrre ricchezza e la possibilità di far funzionare il welfare.

Il problema – come rilevano Bankitalia e Istat – è che l’Italia presenta una accentuata “fragilità demografica”, accumulata nel corso degli anni. E quindi siamo di fronte ad un inesorabile spopolamento del nostro Paese, in cui l’invecchiamento della popolazione porterà il già precario equilibrio sociale ed economico definitivamente al collasso? Certamente per l’Italia la sfida è ardua e nei prossimi 20-30 anni avverrà uno dei cambiamenti più repentini e significativi nella sua struttura demografica. Ma si può ancora rimediare per invertire le “amare tendenze”. Altrimenti, continuando ad ignorare il problema, il declino sarà irreversibile e la sostenibilità sociale del Paese sarà a rischio.

Declino demografico: ma come ci siamo arrivati?

La popolazione italiana del secondo dopoguerra ha vissuto cambiamenti importanti. Ma come si è arrivati a questo importante calo demografico? Questa situazione è causata da una parte dalle nuove abitudini riproduttive delle donne in età fertile, che diventano mamme sempre più tardi (l’età media delle madri al primo figlio è ad oggi pari a 33,3 anni), e dall’altra dal loro numero, praticamente dimezzato rispetto a quello generato dal periodo del baby boom, e definito baby bust (quando il numero medio di figli per donna ha toccato il valore minimo, inferiore a 1,2). In pratica, a partire dalla metà degli anni Settanta si è iniziato a registrare un forte calo della natalità che ha determinato la contestuale diminuzione anche delle donne in età fertile rispetto cinquant’anni fa.

Inoltre, sempre in quegli anni c’è stata un’inversione di tendenza dei flussi migratori, e l’Italia da Paese di emigrazione è divenuto un Paese di immigrazione. E ciò ha portato a una popolazione sempre più anziana.

Non solo: questi cambiamenti si sono innestati su un Paese che andava modificandosi sotto il profilo territoriale: sono nate le regioni, contraddistinte da caratteristiche demografiche spesso molto diverse (le tendenze demografiche negative sono oggi più accentuate nelle regioni meridionali), con tendenze diversificate non solo nei comportamenti familiari ma anche nei confronti della salute e dei flussi migratori.

Allo stesso tempo, rispetto al passato, siamo complessivamente più ricchi e più longevi (complici anche i progressi della medicina) ma in maniera molto più graduale e di certo non al passo con il declino demografico.

Il divario Nord-Sud: il Mezzogiorno si impoverisce

Durante il convegno sono stati presentati diversi studi che hanno ricostruito gli andamenti dell’economia italiana e delle due macroaree del Paese, il Centro Nord e il Mezzogiorno, dagli anni Cinquanta ad oggi. Sono stati proposti anche alcuni scenari di crescita sulla base delle proiezioni demografiche dell’Istat e diverse ipotesi circa l’evoluzione futura del mercato del lavoro e della produttività. L’analisi storica delinea un progressivo rallentamento della crescita, più marcato nel Mezzogiorno, guidato da quello della produttività totale dei fattori e, più di recente, dell’accumulazione del capitale e dell’utilizzo del lavoro. Dato il calo atteso della popolazione in età di lavoro, senza aumenti della partecipazione al mercato del lavoro e della produttività, l’economia italiana sarebbe destinata a contrarsi dalla seconda metà del decennio in corso, con maggiore intensità nel Mezzogiorno. Tassi di crescita della produttività simili a quelli degli altri paesi europei e un processo di convergenza tra le due aree sarebbero invece in grado di assicurare al Paese ritmi di sviluppo sostenuti, sia nel mercato del lavoro sia nella produttività.

Crisi demografica: le contromisure

“Per difendere il lavoro bisogna crearlo. Se non lo si crea è difficile difenderlo”. Con queste parole è intervenuto l’ormai uscente governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco durante il workshop sottolineando la necessità di “innalzare la partecipazione di donne e giovani al mercato del lavoro. Serve investire in formazione per ampliare gli ambiti di ricerca dell’occupazione, e rafforzare l’offerta dei servizi per l’infanzia e in generale per la famiglia”. Ma anche nell’ipotesi più ottimistica di un progressivo innalzamento dei tassi di attività dei giovani e delle donne fino ai valori medi dell’Unione europea, “troppo bassi in vari comparti del nostro territorio e in particolare nel Mezzogiorno”, nel lungo termine la crescita economica non potrà contare su un aumento endogeno delle forze di lavoro: gli effetti del calo della popolazione, soprattutto nelle età centrali, potranno essere mitigati nel medio periodo, oltre che da un allungamento dell’età lavorativa – considerato che “si può lavorare bene oltre i 65 anni” – e da un recupero della natalità (per quanto auspicabile), solo anche da un aumento del saldo migratorio. “Questo si potrà fare impedendo da una parte il deflusso dei nostri giovani, dall’altra incentivando l’arrivo dall’estero”, ha sottolineato Visco. Ma per gestire i flussi migratori occorrono politiche ben concepite di formazione e integrazione, indispensabili per l’inserimento dei migranti e delle loro famiglie nel tessuto sociale e produttivo.

Dunque, non è troppo tardi per mettere in campo iniziative che vadano in questa direzione, certamente l’esito di questa partita non è scontato ma la scommessa è ancora aperta.

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