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Crisi demografica e pensioni: conciliarle è sempre più problematico. Ecco perché l’immigrazione è la risposta meno difficile

FIRSTonline

L’Italia deve molto alla Banca d’Italia. I Governatori solitamente individuano e denunciano i problemi e i punti deboli del Paese quasi sempre senza pagare il dazio delle critiche di quella che Mario Monti definisce – nel suo ultimo saggio – Demagonia. Intervenendo al Meeting di Rimini (la convention di apertura dell’autunno della politica che un tempo era affidata al Festival dell’Unità) Fabio Panetta è andato direttamente ai punti critici della situazione senza girarci troppo attorno. In particolare per quanto riguarda il tapis roulant della demografia (sul quale camminano in discesa tutti i fattori dell’economia) Panetta ha ricordato che le proiezioni indicano che nei prossimi decenni si ridurrà il numero di cittadini europei in età da lavoro e aumenterà il numero degli anziani.

Calo demografico, l’immigrazione è la risposta meno difficile

“Questa dinamica – ha aggiunto – rischia di avere effetti negativi sulla tenuta dei sistemi pensionistici, sul sistema sanitario, sulla propensione a intraprendere e a innovare, sulla sostenibilità dei debiti pubblici”. Che fare dunque? “Per contrastare questi effetti – ha spiegato il Governatore – è essenziale rafforzare il capitale umano e aumentare l’occupazione di giovani e donne, in particolare nei Paesi – tra cui l’Italia – dove i divari di partecipazione al mercato del lavoro per genere ed età sono ancora troppo ampi. Anche misure che favoriscano un afflusso di lavoratori stranieri regolari costituiscono una risposta razionale sul piano economico”.

Non vi è alcun accenno al mito della ripresa della natalità, nonostante l’adozione di nuove misure di sostegno economico. Siamo scesi tanto in basso che la risalita – ammesso e non concesso che sia possibile – pretende di avere a disposizione lo stesso numero dei decenni che hanno segnato il declino. Anzi – potrebbe sembrare uno scherzo del destino – ma l’afflusso di un maggior numero di stranieri è in pratica la risposta meno difficile, anche se carica di problemi e condizioni; ma senz’altro più concreta dei tardivi propositi di riattivare la filiera della natalità, dissodando i fattori di carattere culturale che l’hanno mortificata.

Ovviamente – come ha detto Panetta – c’è un problema di regolarizzare il fenomeno andando oltre l’accoglienza verso politiche efficaci di integrazione che richiedono una profonda revisione della legge Bossi-Fini, praticamente inservibile per garantire la legalità e – certamente – anche la questione della cittadinanza (il tema divisivo del dibattito politico di fine stagione), avendo però l’onestà intellettuale di riconoscere che si tratta di problemi diversi.

È importante che nessuno si azzardi più a sostenere che gli immigrati rubano il lavoro agli italiani, ma che tutti riconoscano la necessità di quella manodopera che in Italia non si trova più. Occorre però farsi carico del cosiddetto ‘”aiutarli in casa propria”. È un obiettivo che riguarda in primo luogo la possibilità di garantire un futuro di sviluppo all’Africa. È naturale che chi fugge da quelle realtà sono i più giovani, più intraprendenti e forti e quindi si determina un impoverimento del capitale sociale necessario ad una svolta. Nel nostro piccolo possiamo annoverare l’esperienza di una crescita economica basata sull’immigrazione interna. Ma chi si imbarcava con la valigia di cartone appresso sul diretto Trevico-Torino (il titolo di un film che raccontava l’esodo dei giovani dai paesi del Sud dove restavano solo i vecchi a tirare a campare con la pensione di invalidità erogata dall’Inps per garantire un minimo di sussistenza).

Welfare sacrificato sull’altare delle pensioni

È il caso comunque di spiegare per quali motivi l’Italia pur essendo stata governata per 50 anni da un partito di ispirazione cristiana ha rinunciato a darsi una politica a favore della natalità e della famiglia. Al sostegno dei figli e delle famiglie il welfare all’italiana assegna il 4% dell’intera spesa sociale che è la metà di quella media europea. In termini di Pil alla maternità e ai figli è dedicato circa l’1% che è pari a 1/17 di quanto è destinato alle pensioni. Dal 1995 ad oggi vi è stata una vera e propria spoliazione di risorse dalle politiche per la famiglia (e la natalità) a quelle pensionistiche. Negli anni ’60, sia pure in un contesto demografico profondamente diverso dall’attuale, la spesa per assegni familiari (Af) era pressoché corrispondente a quella per le pensioni. Gli Af allora erano misura di carattere universale, fino alla riforma del 1988 che introdusse l’assegno al nucleo familiare (Anf) il principale, se non addirittura l’unico, strumento a tutela della famiglia, ragguagliato al reddito e al numero dei componenti.

La riforma del sistema pensionistico, attuata dalla legge Dini-Treu nel 1995 (dettata, parola per parola, al governo da parte dei sindacati), stabilì, a copertura, una riallocazione dei contributi a favore del Fondo pensioni lavoratori dipendenti (Fpld) la cui aliquota contributiva, dal 1° gennaio 1996, passò di colpo dal 27,5% al 32,7% (in seguito al 33%). Per non aumentare il costo del lavoro, la legge operò, ad oneri invariati, una ristrutturazione della contribuzione sociale: l’aliquota dell’Anf passò dal 6,2% al 2,48%, quella per la maternità dall’1,23% allo 0,66%. Altri tagli riguardarono gli ammortizzatori sociali, E la politica della casa di cui oggi si lamenta l’assenza? Anche questa sacrificata sull’altare delle pensioni. L’aliquota ex Gescal (un tempo rivolta a finanziare l’edilizia popolare) passò dallo 0,70% prima, allo 0,35% poi, e infine allo zero assoluto. In euro, a prezzi 1996, la diminuzione delle risorse disponibili fu di 4,6 miliardi di lire per l’Anf, di 0,6 miliardi per la maternità, di 1,4 miliardi per asili ed edilizia sociale, per un totale di 6,6 miliardi.

Come documentò la Cei in un saggio – Il cambiamento demografico pubblicato da Laterza – dal 1996 al 2010 la riallocazione di risorse destinate alla famiglia, in senso lato, ha finanziato il sistema pensionistico per un ammontare che, a prezzi 2008, mobilitò e trasferì un volume finanziario pari a circa 120 miliardi di euro. Ma non basta; perché all’interno della Gestione prestazioni temporanee dell’Inps (che eroga le prestazioni previdenziali in quanto non pensionistiche), la voce “assegno al nucleo familiare” – nonostante la riduzione dell’aliquota – continuò ad incassare dai datori di lavoro circa un miliardo in più di quanto spendeva: l’avanzo veniva riversato, nella logica del bilancio unitario dell’Inps, nel calderone delle gestioni pensionistiche e delle altre prestazioni.

Anzi il paradosso contabile era tale per cui, quando un governo decideva di aumentare nella legge di bilancio l’Anf, non si avvaleva degli avanzi di bilancio, ma stanziava direttamente le risorse occorrenti. L’istituzione dell’Assegno unico universale (Auu) ha rappresentato l’inizio di un’inversione di rotta con novità importanti. Ma l’ipotesi di un maggior ricorso al lavoro straniero, ancorché problematico e non inesauribile, rimane una prospettiva più concreta.

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