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Crisi: basta deficit, serve più credito e una politica monetaria ancor più espansiva

La brillante conferenza tenuta dall’economista italo-americano Dominick Salvatore nell’ambito delle lezioni in onore di Felice Ippolito organizzate dalla Fondazione La Malfa sembra aver portato ad una maggiore convergenza delle tesi degli economisti di diverse scuole sulle origini e soprattutto sulle politiche necessarie a far uscire l’Europa ed in particolare l’Italia dalla profonda crisi in cui si trovano. 

Salvatore, La Malfa e Savona sembrano convergere sulla necessità di affrontare contemporaneamente sia l’aspetto congiunturale che quello strutturale da cui derivano le difficoltà italiane e che vengono aggravate  dal loro perverso intrecciarsi . Infatti le politiche di risanamento strutturale, con particolare riguardo alla stretta fiscale necessaria a tenere sotto controllo il deficit del bilancio statale, stanno avendo effetti depressivi sulla congiuntura più forti dell’auspicato, tanto da mettere in forse il raggiungimento degli stessi obiettivi di deficit e di debito programmati, oltre a creare una paurosa scomparsa di imprese e un insopportabile aumento della disoccupazione.  

Per spezzare la perversa spirale della depressione alcuni economisti e gran parte delle forze politiche hanno posto l’accento sulla possibilità di sfondare i parametri di deficit e di ottenere dalla autorità europee il permesso di finanziare fuori bilancio gli investimenti pubblici e le politiche di sostegno del lavoro, soprattutto giovanile. Ma questa è una ricetta che secondo altri economisti non risulterebbe idonea a superare la perversa congiuntura perché, come ha sottolineato  proprio ieri il premio Nobel Edmund Phelps, anch’egli in Italia per un ciclo di conferenze, per i paesi molto indebitati ogni incremento del deficit e del debito aumenterebbe i timori dei mercati, con effetti depressivi sugli investimenti e sugli stessi consumi.

Per uscire dall’attuale situazione occorre quindi porre l’accento sui due aspetti del problema: da un lato riconoscere, come ha sottolineato Salvatore, che la crisi italiana ha radici antiche che hanno portato a una progressiva perdita di competitività, e che quindi vanno aggredite da subito con politiche volte ad una progressiva riduzione del carico fiscale, ad uno smantellamento degli eccessi burocratici, ad una maggiore flessibilità del mercato del lavoro, ad un miglioramento della scuola e della Giustizia, ma nello stesso tempo non si può non considerare che tutte le riforme strutturali hanno bisogno di un  certo tempo per dispiegare i loro effetti , mentre occorre fare qualcosa subito per aggredire la crisi congiunturale che sta mettendo a rischio la coesione sociale e politica, oltre a provocare gravi danni “strutturali” all’apparato produttivo del Paese.

Come si possono legare i due momenti in modo da comunicare ai mercati ed ai cittadini un percorso chiaro e credibile di risanamento? C’è un passaggio della Relazione del Governatore della Banca d’Italia dello scorso 31 maggio che non è stato oggetto di riflessione pubblica e che invece avrebbe meritato maggiore attenzione. Il Governatore dice che, secondo calcoli dei suoi uffici, la responsabilità della recessione può essere attribuita per circa un terzo alla stretta fiscale, ma che per ben due terzi deriva dall’accentuata stretta creditizia. Analogo concetto è stato ripreso alcuni giorni dopo dal capo economista dell’Ocse Carlo Padoan.

Se questa indicazione trovasse l’accordo degli economisti e soprattutto l’attenzione dei politici che invece si stanno azzuffando intorno a provvedimenti secondari e certo non idonei a delineare un effettivo percorso di uscita dalla crisi, allora risulterebbe abbastanza chiaro cosa fare in  casa nostra e cosa chiedere con forza (battendo i pugni sul tavolo se necessario) alle autorità europee e agli altri paesi, Germania in testa, che sono paladini dell’austerity in una sola direzione.

Il nostro Governo dovrebbe proporre subito un piano di riforme a cominciare da quelle istituzionali e di taglio della spesa pubblica, per poi passare in rapida successione al mercato del lavoro, alla scuola e alla Giustizia, in modo da rendere chiara e credibile la direzione di marcia lungo la quale il paese si sta muovendo e che peraltro in tempi brevi potrebbero già dare i primi risultati in termini, ad esempio, di riduzione del carico fiscale sul lavoro e sulle imprese.

Allo stesso tempo, il Governo dovrebbe porre in termini ultimativi sui tavoli europei la necessità di varare immediatamente l’unione bancaria e tutte le regole necessarie per aiutare le banche da un lato, ma dall’altro sostenere la necessità di dare alla Bce i poteri necessari per fare una politica monetaria ancora più espansiva acquistando a suo insindacabile giudizio titoli pubblici e privati (con preferenza per i paesi che hanno un chiaro ed incisivo programma di risanamento) in modo da ridurre l’insopportabile sopravvalutazione dell’Euro. 

Cosa del resto  che dovrebbe essere facilitata dal graduale cambio della politica monetaria della Fed.  Aiutare le banche poi è indispensabile, non solo quelle in situazione di crisi, ma anche quelle, come le italiane (ma non solo) che soffrono per una inadeguata capitalizzazione, facendo come è stato fatto negli Stati Uniti tre anni fa quando le autorità hanno obbligato le banche a prendere fondi pubblici per aumentare il loro capitale.

Naturalmente, come ha sottolineato Dominick Salvatore, occorrerebbe anche premere sulla Germania affinché rilanciasse la propria economia, dato che loro potrebbero ampliare gli investimenti pubblici compensando in parte la caduta della domanda dei paesi che devono proseguire le loro politiche di austerità con una maggiore domanda proveniente dal mercato tedesco.

In definitiva, per paesi come l’Italia si tratterebbe di puntare sull’eliminazione della stretta creditizia e su una politica monetaria ancora più decisa in senso espansivo, invece che cercare di allargare le maglie del bilancio pubblico. E ciò non solo per opportunità politica, dato che sulle banche è  la Germania con i suoi no ad essere in  difficoltà rispetto alle autorità europee, ma anche per un preciso calcolo economico in quanto un aumento della spesa pubblica non raggiungerebbe gli obiettivi sperati dato che aumenterebbe l’incertezza sulle sorti del Paese sia presso gli investitori internazionali che rispetto agli stessi consumatori italiani. Non si tratta di una battaglia facile.

L’alternativa è quella di una progressiva crisi dell’Euro verso cui si registra già un calo di fiducia dei cittadini europei, ma la cui dissoluzione porterebbe problemi ancora più gravi di quelli che dobbiamo oggi affrontare ed una scia di rancori e sospetti che ricaccerebbero l’Europa indietro di oltre un secolo.

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