Per un po’ ho girato attorno ai Non-Fungible Token con una certo distacco, poi ho iniziato a prenderci sempre più interesse. Partiamo dal senso e dal non-senso.
Che senso ha offrire 70 milioni di dollari in una cripto asta online di Christie’s per acquisire il certificato di autenticità (il NFT appunto) di una .jpg creata dall’artista digitale americano Beeple? Beeple è lo pseudo di Mike Winkelmann, un gioviale e compassato artista quarantenne del Winsconsin, incredulo di quanto gli stava accadendo.
E ci credo! Ho letto che il valore medio d’asta di un Picasso è di 10 milioni dollari (anche se sei opere sono state battute per un valore superiore ai 100).
Per l’aggiudicatario dell’opera di Beeple, l’imprenditore di criptovalute di Singapore noto come MetaKovan, ha, invece, senso – e molto. Per lui, e non solo per lui, i NFT cambieranno tutto nel mondo dell’arte, dello spettacolo, dello sport e dell’editoria quando queste attività liberali, e succederà presto, passeranno nel ciberspazio.
Adesso sembra essersene convinto anche il “New York Times”. Il suo technology columnist, Kevin Roose, ha aggiudicato, sempre in una cripto asta, un suo articolo sui NFT per mezzo milione di dollari, lasciando di stucco la redazione del quotidiano di New York che ha cominciato a pubblicare un pezzo al giorno su questa nuova tecnologia.
Kevin, dopo aver associato un NFT alla .png del suo articolo, ha pungolato i collezionisti di efemera e di cose eccentriche i quali hanno risposto alla grande. In effetti il mondo del collezionismo inizia a guardare ai ciber documenti con un crescente interesse legato proprio al ruolo svolto dai NFT.
Collezionisti appunto, ma gli elefanti bianchi del mercato dell’arte si tengono ancora a debita distanza da questo tipo di asta che è, sì, promettente, ma ancora troppo rischiosa per loro.
Come sostiene giustamente il critico d’arte Sophie Haigney acquistare un NTF non equivale ad acquistare la proprietà dell’“oggetto” associato all’NFT, significa piuttosto “comprare il concetto di possedere un oggetto”. Comprare un concetto è veramente qualcosa di inusitato e anche inedito nella storia del commercio e dello scambio mondiale. Dovremmo chiedere chiarimenti a WTO. Ma c’è ancora di che meravigliarsi a proposito del criptospazio?
Il criptospazio
Il criptospazio è una regione arida e pericolosa del ciberspazio. E che cosa si trova nel ciberspazio l’ha detto bene Thomas Friedman, pluripremiato vincitore del Pulitzer e noto anche in Italia per i sui libri editi da Mondadori, tra cui La terra è piatta – non nel senso di Grillo. Friedman ha scritto sul NYT, commentando l’elezione di Trump (dalla quale non si è mai riavuto):
“È stato il momento [l’elezione di Trump] in cui ci siamo resi conto che una massa critica delle nostre vite e del nostro lavoro è scivolato via dal mondo terracqueo in direzione del regno del ciberspazio. O meglio, una massa critica delle nostre relazioni si sono trasferite in un territorio dove tutti sono connessi ma nessuno è il responsabile.
Non ci sono riflettori nel ciberspazio, non ci sono poliziotti che pattugliano le strade, non ci sono giudici, non c’è Dio che punisce i malvagi e premia i buoni e certamente non c’è il telefono amico da chiamare se qualcuno ti molesta o inquina le elezione del tuo paese.
E il ciberspazio è il territorio nel quale adesso spendiamo ore ed ore della nostra giornata, dove facciamo la maggior parte nostri acquisti, la maggior parte dei nostri incontri, dove coltiviamo le nostre amicizie, dove apprendiamo, dove svolgiamo grande parte dei commerci, dove insegniamo, dove ci informiamo e dove cerchiamo di vendere le nostre merci, i nostri servizi e le nostre idee”.
Difficile dirlo meglio, anche se il ciberspazio è un pianeta ancora da esplorare, il quale, come lo spazio siderale governato da logiche simili, può offrire grandi risorse, come un po’ lo sono i NFT e la blockchain, la tecnologia loro sottostante. Queste tecnologie ci portano un bel po’ in avanti nella nostra esplorazione.
La blockchain
I Non-Fungible Token, come tutte le cose ideate dalle menti cartesiane, sono concettualmente complicati, ma piuttosto semplici nella loro applicazione pratica. Un NFT non è nient’altro che un record (cioè una scrittura chiaramente univoca) di un immenso database distribuito su milioni di computer collocati ovunque. Questo registro elettronico pubblico è la blockchain, una tecnologia dalle potenzialità enormi e dai rischi ambientali altrettanto grandi data la sua enorme voracità di energia.
La scrittura della blockchain, incorporata in un documento digitale, ne garantisce l’autenticità, proprio come un documento notarile.
Fin qui niente di particolare e si capisce anche il valore economico che questa tecnologia può conferire a un oggetto digitale riproducibile all’infinito e quindi già per sua natura scambiabile. Se qualcuno possiede un certificato di autenticità riconosciuto, può far valere dei diritti sull’uso, sullo scambio e sul valore di quella “merce” digitale.
Il discorso, però, non riguarda solo la tecnologia e l’economia, che sono le strutture del nostro esistere. Riguarda anche la sovrastruttura, cioè va a toccare il concetto stesso di arte come pure un nodo di questioni legate alla teoria estetica, senza la quale, beninteso, si può tranquillamente sopravvivere e amare l’arte. Perché oggi abbiamo delle cose nuove come la ciberarte, la criptoarte, i ciberartisti, i cibermercanti e i cibercollezionisti.
A proposito della cripto arte, ci si può domandare in che misura questo certificato di autenticità, cioè il NFT, possa influire sulla dimensione estetica percepita di un’opera d’arte immateriale e permetta a quel non-so-che — che Benjamin chiama aura — di inverarsi.
Qui la faccenda va oltre le mie possibilità, ma qualche considerazione vorrei farla ugualmente.
La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte
Recentemente ho riletto L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (ed. it. Einaudi), un’opera essa stessa avvolta in una propria aura e indubbiamente seminale e affascinante come tutto il pensiero di Walter Benjamin, a sua volta molto più disposto dei colleghi della scuola di Francoforte ad affacciarsi benevolmente sulla tecnica e sulla cultura nel tempo del capitalismo avanzato.
Benjamin (Berlino, 1892 – Portbou/Spagna, 1940) viveva nel suo tempo e sul piano della tecnologia della riproducibilità e della esponibilità di un’opera, aveva da confrontarsi con il cinema, la fotografia e la stampa, ma non anche con un fenomeno così intrinsecamente dotato di riproducibilità tecnica come la rete. Pertanto le sue riflessioni possono essere per noi solo una traccia, una traccia molto importante a livello teorico e metodologico.
Penso, però, che ancora oggi tutto giri intorno alla faccenda dell’aura se parliamo di dimensione estetico-percettiva dell’opera d’arte in sé, avulsa da altri contesti come quelli socio/economici o culturali.
La faccenda dell’aura
Ho cercato, anche con il Kindle, in questi scritti di Benjamin una qualche definizione di aura. Non ne ho trovata una definitiva. È più probabile, però, che non sia riuscito a coglierla. Non l’ho còlta neanche nella dotta e auratica introduzione di Massimo Cacciari, che, quanto a estensione supera lo scritto di Benjamin. Può essere che anche qui mi sia sfuggita.
Non mi resta che auto-pubblicare la mia idea di che cosa sia l’aura.
Per me è quello struggente languore che un’opera d’arte originale trasmette quando si è a tu per tu con “essa”. Si tratta di una sorta di choc: lo stesso Benjamin lo associava alla dimensione di aura.
Sarà capitato a molti di fronte alla Vergine delle rocce della National Gallery di Londra, grazie a quell’irrepetibile paesaggio sfumato dietro le figure in primo piano. Oppure di fronte al Cristo morto di Andrea Mantegna (Pinacoteca di Brera) che lascia uno strascico emozionale che dura giorni e giorni, come un lieve cerchio alla testa. Anche Pasolini, che travasava tanta arte nei suoi film, fu così toccato dal Cristo del Mantegna da costruirci la scena capitale di Mamma Roma, film stupendo, anche se sciupato dall’interpretazione troppo fisica e traboccante di Anna Magnani.
A me succede lo stesso fenomeno auratico con alcune pagine di La certosa di Parma (in particolare nei brani che riguardano la duchessa di Sanseverina) o alcune poesie di Ungaretti lette dall’autore (forse perché impersona l’archetipo del Grande Padre).
È come se l’opera d’arte originale nella sua universale unicità avesse una sorta di spirito vitale, un certa forza animistica capace di accendere un transfert in chi le sta di fronte. Naturalmente, come nella piscoanalisi, bisogna essere “pre-disposti”. Penso, però, che la dimensione emozionale dell’aura sia in un qualche modo, che ignoro, legato al fenomeno del transfert.
Anche Benjamin guardava con attenzione a Freud e non disdegnava riferirsi alle sue teorie, ma preferiva di più la filosofia e, per la dimensione auratica, usava il termine di sacralità, che lui chiama “valore di culto” e che definisce come “aura satura di contenuto storico”. Contenuto storico, appunto (come c’è nel mur des Fédérés a Parigi o nel Checkpoint Charlie a Berlino — ma non c’entrano troppo con l’aura).
Dilemmi attuali
Una stringa alfanumerica e una composizione visuale che appare sullo schermo di un smartphone può inverare l’aura? Non è detto che la tecnica soffochi comunque l’aura. Come dice Cacciari, tra parentesi, nella menzionata introduzione: “(Benjamin parla di un residuo di aura per i primi ritratti fotografici)” (di Baudelaire aggiungo io, per il quale Benjamin aveva una fissa).
Con un po’ di allenamento, e con l’evoluzione del gusto, questo “qualche residuo” potrebbe essere preservato nella cripto arte. Certo è che nessuna aura può essere assegnata al valore economico, qualsiasi esso sia, che questi “oggetti” generano (sempre Cacciari). Senza, con questa premessa, “de-valorizzare” la dimensione economica dell’arte.
Ma, visto che è appena trascorsa la data del 5 maggio non ci resta che lasciare “Ai posteri l’ardua sentenza” circa questo dilemma. E questi posteri vivranno nel ciberspazio e saranno sempre persone emozionabili.
Aspettando questo momento potete andarvi a leggere la traduzione italiana dell’articolo di Kevin Roose che racconta come ha costruito l’asta online che gli ha permesso di battere un suo articolo per 500mila dollari.