È ora di fare qualche passo più in là del paradigma della rivolta contro la globalizzazione con cui si è tentato in questi anni di tenere insieme e spiegare Brexit, Trump, Visegrád, il populismo nordeuropeo, quello mediterraneo e la loro saldatura ideologica con il nazionalismo russo, turco, messicano, indiano, filippino e fra poco brasiliano. Questo fronte è ormai così ampio che è diventato più pratico elencare chi non ne fa parte, ovvero il Canada, l’Europa occidentale tedesca o filotedesca, il Giappone, l’Australia e la Cina. La Cina è però globalista solo in quanto mercantilista. Per il resto il milione di uiguri nei campi di concentramento dello Xinjiang e il commissario politico del partito comunista istituito negli ultimi mesi in ogni impresa privata non fanno della Cina un campione del liberalismo.
Spiegando porzioni crescenti del mondo (ormai quasi tutto) questo paradigma comincia a lasciare il tempo che trova, non aggiunge conoscenza e non spiega più molte delle novità che si vanno producendo sulla scena globale. Proviamo allora ad avanzare qualche ipotesi su un nuovo paradigma tagliato su misura per questa nuova età dei nazionalismi che coinvolgono ormai perfino la Germania che pensa seriamente di dotarsi dell’atomica e il Giappone che vuole riarmarsi. Bene, nell’età dei nazionalismi 1) non ci sono più (o ci sono sempre meno) i mercati sovraordinati alla politica e 2) il ritorno della politica come fattore assolutamente dominante non può che produrre il primato del potere politico più forte, quello degli Stati Uniti.
Se è così, vengono meno i paradigmi degli anni scorsi sul mondo alla deriva nel caos (il G-Zero di Bremmer) e quello ormai antico dell’unificazione del mondo all’insegna della democrazia liberale (Fukuyama e la fine della storia post-1989 e, negli anni Duemila, il modello neoconservatore dell’esportazione militare della democrazia). E vengono meno anche le idee, prevalenti fino a pochi mesi fa, di un imminente sorpasso della Cina nei confronti dell’America e quella intravista a Davos di una saldatura tra Europa e Cina in funzione di contenimento della degenerazione sovranista americana.
Quello che resta in piedi è dunque la costante degli ultimi cento anni, ovvero un’America che periodicamente vede crescere un soggetto aggressivo e ambizioso (la Germania del 1914 e del 1939, l’Unione Sovietica della guerra fredda, il Giappone degli anni Ottanta, la Cina di oggi), rimane inizialmente passiva, si rende conto del pericolo (talvolta esagerandolo), si rimette insieme e sferra un colpo micidiale che ripristina il suo primato (l’intervento militare nelle due guerre mondiali, il riarmo di Reagan che sfianca l’Urss, la rivalutazione dello yen sotto la minaccia di dazi e i dazi, di nuovo, con la Cina di oggi).
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Trump è imperiale, ma non imperialista. Vuole il ripristino integrale del primato americano, ma non è interessato in positivo ad aree di influenza bensì, in negativo, a evitare che altri alzino la testa. Trump non ha alleati ma amici (Israele, Arabia Saudita, Polonia, Giappone, India). Gli alleati storici che non lo amano e non vedono l’ora che se ne vada (Germania e Canada in primis) sono declassati ad avversari di fatto e non godono di privilegi. Le istituzioni sovranazionali messe in piedi dagli Stati Uniti dopo la guerra e poi divenute ostili (Onu, Wto) vengono svuotate di significato.
Trump non usa le armi militari ma intende mantenere il primato militare americano a costo di deficit di bilancio prossimi al 6 per cento. Soprattutto usa la guerra economica, i dazi da una parte e il dollaro dall’altra. Dei dazi sappiamo, ma va ancora chiarito se il loro obiettivo è il riequilibrio commerciale o il riequilibrio politico, con un energico ridimensionamento di Germania e Cina. Quanto al dollaro, la sua forza coincide con la sua rarità. Un’America che offre l’unico risk-free che rende qualcosa e l’unica borsa che continua a salire è un magnete formidabile di liquidità che rischia di mandare in crisi di bilancia dei pagamenti metà dei paesi emergenti senza creare troppi problemi di competitività all’America finché va in parallelo a dazi e tariffe.
L’altro aspetto del dollaro come arma deriva dalla sua funzione di mezzo di pagamento per le transazioni commerciali e finanziarie. L’America può mettere in ginocchio chiunque togliendogli l’accesso ai dollari, sia che servano per importare materie prime sia che vengano utilizzati per rimborsare e rifinanziare un’obbligazione in dollari.
Non dovendo mandare soldati americani a morire in terra straniera, Trump può combattere con sanzioni, dazi e dollaro un numero illimitato di guerre contemporaneamente. Venezuela, Canada, Messico, Germania, Cina, Turchia, Iran, Russia e da oggi forse anche Sud Africa sono i fronti aperti, ai quali va aggiunto il contenzioso Nato e Wto. Non si guarda in faccia a nessuno se non, come si diceva, agli amici.
I paesi attaccati potrebbero in teoria allearsi tra loro e creare un polo alternativo all’America. Ogni tanto ci provano (la Russia con la Cina, la Turchia con Qatar, Iran, Russia e Cina, l’Europa con la Cina e con l’Iran, il Venezuela con Russia e Cina) ma ci sono dei problemi. Questi paesi non si amano perché hanno interessi strategici divergenti. La Germania ha paura di essere comprata dalla Cina, la Russia teme di finire subordinata alla Cina, l’Iran è ingombrante per la Russia, la Russia è infida per l’Iran, Turchia e Russia hanno interessi molto diversi in Siria. In secondo luogo di questi paesi l’unico che ha i soldi è la Cina e la sua voglia di darli in giro cala ogni giorno.
In terzo luogo, in un perfetto schema da dilemma del prigioniero, ognuno di questi paesi coltiva in un angolo della mente l’idea di un accordo separato con l’America come via d’uscita da tutti i suoi problemi. Chi si impegna a rendersi innocuo, come fece il Giappone raddoppiando il valore dello yen negli anni Ottanta, verrà lasciato vivere e, se ha bisogno di soldi, si vedrà arrivare il Fondo Monetario con la valigia piena di banconote. L’idea della defezione in extremis toglie slancio all’idea di un polo o di una valuta di riserva alternativi e induce tutti, incluso perfino il Venezuela, a non rompere definitivamente con l’America e a lasciare la porta aperta al dialogo.
Abbiamo parlato fin qui di Trump, ma il suo modello può sopravvivergli nei prossimi anni. È evidente che Trump, dopo gli inizi burrascosi della sua presidenza, ha raggiunto un compromesso, se non con il Deep State, quanto meno con settori potenti di quello che Eisenhower chiamava il complesso militare-industriale. Ed è alla luce del sole che i democratici di establishment alla Schumer condividono in pieno l’obiettivo di ridimensionare la Cina per qualche decennio almeno.
Nel 2016, ai tempi del paradigma populismo/globalismo, i soldi dei mercati scappavano istintivamente dal populismo e si rifugiavano nel globalismo. Oggi, nel nuovo paradigma neoimperiale, i soldi scappano dalla provincia e si rifugiano nella metropoli americana. Questo processo subirà ogni tanto delle fasi di riflusso, in particolare se e quando i continui rialzi della Fed indurranno una minirecessione americana e una discesa di tassi, borsa e dollaro, ma è comunque il fattore strutturale che potrebbe dominare fino al prossimo paradigma. Per il momento, l’unica cosa che potrebbe porgli termine anticipatamente (e bruscamente) sarebbe un’America che, dopo averci sorpreso nel 2016 con Trump, ci sorprendesse nel 2020 con la prima Casa Bianca socialista della storia, un’ipotesi cui diamo tentativamente un 25 per cento di probabilità.
È questo 25 per cento di probabilità, inserito in un mondo che ha preso a muoversi molto velocemente, che ci induce a non essere al 100 per cento investiti negli Stati Uniti e a mantenere un peso importante nel resto del mondo. Questo però non toglie che la parte dinamica del portafoglio non possa rimanere in America almeno per qualche tempo ancora.