Il calcio ai tempi del Covid. La pandemia sta avendo effetti devastanti su tutti i settori e anche il pallone, evidentemente, non è certo immune. Non siamo ancora ai livelli della scorsa primavera, quando lo sport più popolare al mondo sembrava essere sul punto di fermarsi a tempo indeterminato, ma certo le cose peggiorano giorno dopo giorno, con la sola certezza che nulla, ma proprio nulla, sia più sicuro. E dire che il campionato passato si era chiuso senza problemi, con 20 squadre a giocarsi 12 giornate (13 con i recuperi) e la Coppa Italia in poco più di 40 giorni, senza dimenticare le coppe europee, concluse in formato ridotto, d’accordo, ma comunque portate a casa contro ogni previsione negativa.
La stagione attuale era cominciata bene con la finale di Supercoppa Europea col pubblico (Budapest), tanto che anche in Italia il dibattito si era spostato proprio sugli stadi e su una loro prossima riapertura, seppur a capienza limitata. Da quella sera in cui il Bayern alzava l’ennesimo trofeo sono passati solo 15 giorni, eppure tutto è cambiato. I contagi sono aumentati sensibilmente e anche il calcio, dai pochi casi di qualche settimana fa, si è ritrovato travolto da un virus non per forza pericoloso (i giocatori coinvolti, al momento, sono tutti asintomatici o con poche linee di febbre), ma comunque molto contagioso. I noti fatti di Juventus-Napoli, probabilmente, potevano essere evitati con un po’ di buon senso (prova ne è il tergiversare del Giudice Sportivo Mastrandrea, in evidente difficoltà nel pronunciare la sentenza), ma il caso Genoa resta scolpito e mette in dubbio l’efficacia del Protocollo, dunque l’intero campionato: se una squadra si sottopone ai controlli il giorno prima di una partita e poi, quando questa è conclusa, scopre di avere 22 positivi, evidentemente il sistema ha delle falle piuttosto grosse.
A tutto ciò poi bisogna aggiungere il solito caos italico, che fa sì che un’Asl locale decida diversamente dalle colleghe sparse per lo Stivale, creando un precedente difficile da gestire, qualsiasi sia la decisione della giustizia sportiva. In questo weekend di sosta, con i giocatori in giro per il mondo e la raffica di contagi in aumento, ci si chiede per esempio cosa succederà settimana prossima, quando il Genoa dovrà andare a Verona con la Primavera (i 17 positivi non sono certo guariti, gli altri non possono allenarsi ma il regolamento prevede il rinvio solo per la prima partita, dopodiché scattano gli 0-3 a tavolino), oppure con il derby di Milano, visti i 5 casi dell’Inter (a Skriniar, Bastoni, Nainggolan e Gagliardini si è aggiunto Radu) e i 2 del Milan (Duarte e, da ieri, Gabbia, mentre Ibrahimovic ha comunicato a tutti la sua guarigione clinica): il regolamento prevede che i suddetti vengano isolati e gli altri possano giocare, ma l’Asl di Milano potrebbe anche seguire l’esempio di quella di Napoli, scavalcando, in maniera del tutto lecita, il Protocollo stilato a maggio da Figc, Ministero della Salute e Cts.
Difficile pensare di andare avanti così, anche perché a risentirne c’è anche la regolarità del torneo: aspetto che, al momento, interessa poco, ma comunque importante in quella che resta pur sempre una competizione sportiva. Urgono soluzioni per salvare un gioco che ci piace, ma che soprattutto rappresenta la quarta industria d’Italia, con un giro d’affari complessivo di 4,7 miliardi di euro, un impatto socio economico di 3 e un gettito fiscale e previdenziale di 1,2. Numeri da capogiro, troppo spesso dimenticati (almeno in apparenza) da vari esponenti del Governo, a cominciare dai ministri Speranza e Spadafora, non propriamente alleati del pallone. Ora ci si chiede cosa fare e qualche idea, inevitabilmente, comincia a girare nei salotti che contano. La più caldeggiata, al momento, è andare avanti così, rispettando un Protocollo che, nel resto d’Europa (comprese Francia, Inghilterra e Spagna, paesi con numeri decisamente peggiori dei nostri), sta funzionando senza i nostri intoppi.
Se però non fosse possibile, l’unica soluzione sarebbe la cosiddetta “bolla”, ovvero isolare il più possibile calciatori, staff tecnico e dirigenti dal resto del mondo e permettere così lo svolgimento del campionato in sicurezza. Guai però a rifarsi al modello NBA: un conto è chiudere le squadre in un luogo isolato per 3 mesi (con costi altissimi e ingenti sacrifici da parte di tutti gli addetti ai lavori), un altro è pensare di fare la stessa cosa per quasi un anno, peraltro senza la possibilità di usare simili strutture, tanto più che gli impegni internazionali non sarebbero certamente compatibili. Insomma, la bolla americana è semplicemente impossibile da replicare, ma può essere uno spunto per una simil europea, meno stringente ma comunque efficace. Ad ogni modo urgono soluzioni, altrimenti il pallone smetterà, per la seconda volta in pochi mesi, di girare. E con lui anche le 250 mila persone che, direttamente o indirettamente, ci vivono.